sabato 8 agosto 2015

Una nuova Cina, una vecchia Europa












LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE sta cambiando ad una velocità e intensità tali da confondere gli stessi cinesi, e questo può rendere il cambiamento particolarmente pericoloso sul piano geopolitico. Sul tema Geopolitica.info ha avuto il piacere di conversare con Francesco Sisci, autore del libro “A Brave New China”, già corrispondente da Pechino di Ansa, La Stampa e IlSole24Ore e tra i massimi esperti europei di Cina.

Nel suo ultimo libro spiega come la Cina odierna sia “non più la vecchia Cina”, ma un Paese profondamente diverso. Un Paese che di fatto ancora fatichiamo a comprendere. Qual è stato il cambiamento maggiore, il più profondo degli ultimi 30 anni?

È difficile indicarne solo uno, in realtà è un cambiamento radicale del modo di vita, che va dal modo di vivere, di abitare: le case sono diverse, i vestiti sono diversi, anche le cose da mangiare sono diverse, persino il modo di tagliarsi i capelli. Forse il singolo cambiamento più grande riguarda la famiglia e i figli. Si tratta di un cambiamento mastodontico, specialmente per la società cinese, una società senza un grande senso di divinità, dove il rispetto degli antenati e il rispetto dei figli sono il grande filo conduttore, sono una religione. Si è passati prima del ’49 da una famiglia che aveva idealmente un marito e un gruppo di mogli con 3 generazioni di figli, tutti ordinati secondo nomi specifici, a una famiglia nucleare fatta di un figlio unico. La famiglia ora prevede una moglie e un figlio e, cosa molto importante, questo è stato fatto come un sacrificio di sangue importante: 400 milioni di bambini sacrificati. È  stato fatto con calcolo, hanno ucciso quello che per loro è più caro, sull’altare del progresso.

Da quanto racconta nel libro si ha la percezione che la Cina sia vittima di un paradosso: cresce il nazionalismo diretto al riconoscimento del più vecchio Stato-civiltà, come scrive Henry Kissinger, ma allo stesso tempo proprio quella civiltà si allontana dalle sue radici fino al punto di non riconoscersi. É così?

È proprio così. In realtà il vecchio Stato-civiltà era tale perché non aveva bisogno di affermarsi, era in qualche modo metafisico. Era uno Stato isolato. L’insieme dei Paesi che la circondavano non avevano la metà della forza cinese, oggi invece questo non è più cosi. Il resto del mondo rende la Cina nana: conta solo il 20% della popolazione e il 10% del Pil mondiali. Naturalmente, in questo mondo i cinesi devono affermarsi, e nell’affermarsi l’idea di Stato-civiltà nega se stessa, non funziona. Ci sarebbe bisogno un nuovo principio unificante e anche di un nuovo modo di pensare il mondo.

Cosa non riusciamo a comprendere, oggi, in Occidente e soprattutto in Europa, in merito al cambiamento in atto? Cosa ci sfugge?

Non solo noi non capiamo, ma anche i cinesi non capiscono. I cinesi sono cambiati, ma guardano il mondo con i concetti filosofici antichi. Rimane sempre una discrasia: si racconta l’urbanizzazione con il modo di pensare della giungla, l’occidentalizzazione con delle categorie cinesi. È una cosa sistematica, un processo: i cinesi non hanno smesso di cambiare. Quello che oggi si dice per la Cina tra 6 mesi o 1 anno non sarà più valido. Quello che è importante per noi è che se la Cina è disposta a fare questi cambiamenti per sopravvivere così dovremmo fare anche noi, invece abbiamo smesso di cambiare, paradossalmente come quando l’ondata non ci ha colpito.

Le molte speculazioni e osservazioni fatte in Occidente su una Cina sempre più aggressiva sono accurate, oppure risultano sovrastimate?

La Cina di per sé cresce, e come un elefante quando cresce oggettivamente diminuisce lo spazio altrui. Inoltre è un elefante molto sensibile, sente che gli altri sono nervosi e si innervosisce a sua volta. Un fenomeno di nervosismo reciproco molto forte e molto pericoloso, ma diverso dalla pericolosità del fascismo, o del comunismo, dagli estremisti pseudo-musulmani. Queste sono ideologie nettamente aggressive, i cinesi invece non hanno questa ideologia dichiarata, però oggettivamente il loro peso specifico è tale che tutti gli equilibri vengono incrinati.

Come valuta i rapporti attuali di Pechino con gli altri due giganti economici della regione, Giappone e Corea del Sud? Cosa impedisce ai tre Paesi di seguire un processo di trasparenza storica così come avvenuto ad esempio tra Germania e Polonia?

Non c’è stata l’America. Gli USA hanno impedito a Francia e Germania di ripescare nella loro storia, unendoli nella CECA e nella NATO. Così in realtà l’America ha cambiato la Storia. Questo non è avvenuto in Asia per motivi complessi, tra cui il fatto che durante la Guerra fredda la Cina era da una parte, la Corea era spaccata, il Giappone nell’altro blocco. Adesso vi è il doppio rischio: gli strascichi della fine della Seconda Guerra mondiale e la fine della Guerra fredda, che ancora non è finita perché la Cina è ancora (almeno in parte) comunista. Sono due eredità che si sommano.

Qual è il principale problema nelle relazioni Pechino-Washington?

La crescita cinese è un punto di domanda enorme per entrambi. I cinesi non sanno cosa vogliono fare da grandi, e questo amplia tutto, diventa un problema globale. Però come si fa a discutere di questo problema globale che è allo stesso tempo anche nazionale con tutti sospetti e le paure attuali, con gli americani interessati sembra solo a bloccare la Cina?

Mentre le relazioni con Washington subivano degli alti e bassi, i rapporti con i paesi dell’UE sono aumentati costantemente negli ultimi 20 anni, fino alla clamorosa adesione dei principali Paesi europei alla Asian Infrastructure Investment Bank. Per la Pechino l’UE e’ un territorio di conquista oppure un partner di pari livello?

La realtà è che l’UE non esiste, questa è la premessa. In realtà per la Cina esiste un rapporto in primo luogo con la Germania, poi con Francia e Inghilterra. Questa è la realtà. Poi vi sono i sogni, e i cinesi sognerebbero da anni che l’UE emergesse come Paese unitario e quindi fosse un partner, anche capace di controbilanciare il rapporto con l’America. Questi però appunto rimangono sogni, perché come vediamo con la situazione greca siamo ben lontani dall’aver una “unione europea”.

Secondo un recente studio della società di consulenza McKinsey, la Cina sta perdendo terreno sul piano dell’innovazione. Negli ultimi 5 anni l’innovazione ha contribuito al 30% della crescita del Pil, mentre dal 1990 al 2010 la percentuale era superiore al 40%. Con una popolazione che invecchia, un debito che aumenta e un ritorno sugli investimenti che si riduce, non e’ un bel segnale. É  d’accordo con questa analisi?

La Cina secondo me non ha mai fatto mai della grande innovazione. Il problema fondamentale è che non producono tecnologie nuove. Come farai ad essere la prima economia del mondo senza tecnologie innovative? Qui si parla di innovazioni marginali, possono essere o rubate o derivanti da altre risorse: non dimentichiamo che la Cina continua ad avere grandi risorse, tra cui popolazioni vicine, bengalesi, vietnamiti, che le consentono un aumento della produttività. Questi dati e queste statistiche meccaniche e grossolane non sono fondamentali. Negli ultimi 40 anni storia quello che ho visto è che quasi tutti hanno preso un aspetto e ne hanno dedotto che venendo meno quell’aspetto tutto sarebbe crollato. La verità è che la Cina è una enorme balena, servono tanti “ostacoli” per farla crollare. Tornando alla domanda, il problema è la mancanza di innovazione alta, che continua ad essere prodotta per l’85% in Europa e Stati Uniti. E così continuerà ad essere, secondo quanto prospettano, per i prossimi 50 anni.

Concludo chiedendole se secondo lei il XXI secolo sarà il “Secolo asiatico”, il “Secolo cinese” o si continuerà con un nuovo  “Secolo americano”?

Dipende da quale prospettiva lo vediamo. I modelli di grande crescita, in cui sarà amministrato e pensato il mondo, continueranno ad essere europei (perché in questo anche l’America è un estensione dell’Europa). Quantitativamente l’Asia sarà molto importante, ma la differenza tra quantità e qualità è un concetto molto importante e delicato. Ancora oggi, dopo un secolo dal crollo dell’impero britannico, l’Inghilterra continua ad essere il fulcro del pensiero (pensiamo alla sue università, ai principali giornali, alla BBC). Che questo cambi la vedo molto difficile. Quantitativamente però è diverso, e qui l’Asia guiderà, in particolare la Cina.

L'intervista a Francesco Sisci è stata pubblicata su Geopolitica.info



domenica 2 agosto 2015

Il Divario Nord-Sud problema numero uno dell'Italia

















PUBBLICHIAMO un articolo uscito su La Stampa che fotografa senza giri di parole il principale problema del nostro Paese: il Divario Nord-Sud.

Peggio della Grecia

Nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%) e il Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud nel 2014 ha toccato il punto più basso degli ultimi 15 anni, con il 53,7%. Secondo il rapporto «dal 2000 al 2013 il Sud è cresciuto del 13% la metà della Grecia che ha segnato +24%: oltre 40 punti percentuali in meno della media delle regioni Convergenza dell’Europa a 28 (+53,6%)». 

Il Divario con il Nord

In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2014 è sceso al 53,7% del valore nazionale, un risultato mai registrato dal 2000 in poi. Lo scorso anno infatti quasi il 62% dei meridionali ha guadagnato meno di 12 mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord. Nel dettaglio a livello nazionale, il Pil è stato di 26.585 euro, risultante dalla media tra i 31.586 euro del Centro-Nord e i 16.976 del Mezzogiorno. A livello di regioni il divario tra la più ricca, Trentino Alto-Adige con oltre 37 mila euro, e la più povera, la Calabria con poco meno di 16 mila euro, è stato di quasi 22 mila euro, in crescita di 4 mila euro in un solo anno.

Lo tsunami demografico

Colpisce la frenata nelle nascite. Svimez spiega come nel 2014 al Sud si siano registrate «solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia». Il Sud, avverte il rapporto «sarà interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili». «Il Sud è quindi destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27,3% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%», sottolinea il rapporto. 

“Desertificazione industriale"

Dal 2008 al 2014 il settore manifatturiero al Sud ha infatti perso il 34,8% del proprio prodotto, contro un calo nazionale del 16,7% e ha più che dimezzato gli investimenti (-59,3%), tanto che nel 2014 la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil è stata pari al Sud solo all’8%, ben lontano dal 17,9% del Centro-Nord. Dato che fa il paio con la caduta delle esportazioni che in nel Centro-Nord salgono del 3% e al Sud crollano del 4,8%. Ecco perché «il Sud è ormai a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all’area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente.

Occupati in calo

«Il numero degli occupati nel Mezzogiorno, ancora in calo nel 2014, arriva a 5,8 milioni, il livello più basso almeno dal 1977, anno di inizio delle serie storiche Istat». «Tornare indietro ai livelli di quasi quarant’anni fa testimonia, da un lato, il processo di crescita mai decollato, e, dall’altro, il livello di smottamento del mercato del lavoro meridionale e la modifica della geografia del lavoro» si legge nello studio che sottolinea come i 6 milioni siano anche una quota psicologica. Il tasso di disoccupazione arriva nel 2014 al 12,7% in Italia, quale media tra il 9,5% del Centro-Nord e il 20,5% del Sud. Nel 2014 i posti di lavoro in Italia sono cresciuti di 88.400 unità, tutti concentrati nel Centro-Nord (133 mila), mentre il Sud ne ha persi 45 mila. 

Uno su tre sull'orlo della povertà

Rimane il dato che tra il 2008 e il 2014 delle 811 mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro ben 576 mila sono residenti a Sud. Situazione difficile in particolare per le donne che, tra i 15 e i 34 anni sono occupate al Sud solo una cinque. Per quello che riguarda i giovani Svimez parla di una «frattura senza paragoni in Europa»: il Sud negli anni 2008-2014 ha perso 622 mila posti di lavoro tra gli under 34(-31,9%) e ne ha guadagnati 239 mila negli over 55, con un tasso di disoccupazione under 24 che raggiunge il 56%. Questa situazione porta a credere che studiare non paghi più, «alimentando così una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata». Tutto questo si riflette nel rischio povertà che coinvolge una persona su tre al Sud e solo una su dieci al Nord. La regione italiana con il più alto rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%) ma in generale al Sud è aumentata rispetto al 2011 del 2,2% contro il +1,1% del Centro-Nord.

Reference: