domenica 7 dicembre 2014

Il futuro dell'economia italiana passa dall'inglese












E' POSSIBILE che gli italiani non abbiano ancora compreso appieno l'importanza dell'inglese?

L'inglese è l'unica lingua globale. Circa una persona su quattro nel mondo riesce oggi ad esprimersi in lingua inglese e da qui al 2020 la proporzione potrebbe diventare 1 su 3.

La competenza in lingua inglese è direttamente correlata al potenziale di guadagno economico e alla qualità della vita di una persona, alle capacità di gestire un business di successo e di competere nei mercati internazionali.

Molti studi hanno dimostrato che c'è una correlazione diretta tra la conoscenza dell'inglese della popolazione e la performance economica del paese preso in oggetto. L'English Proficiency Index ad esempio indica che nei 63 Paesi analizzati una crescita delle competenze dell'inglese consente una crescita del reddito pro capite.

Anche la qualità della vita, l'educazione, le aspettative di vita, e il tasso di alfabetizzazione traggono beneficio da una sviluppata conoscenza dell'inglese.

Non è un caso che dove l'inglese è più diffuso tra la popolazione anche lo sviluppo economico e sociale aumenta. Le nazioni del nord Europa, in testa per la conoscenza diffusa dell'inglese, sono anche ai primi posti nell'Indice dello Sviluppo Umano redatto dalle Nazioni Unite che misura il grado di sviluppo economico (e quindi non solo la crescita economica) degli Stati.

L'Italia, rispetto ai Paesi europei, registra risultati migliori della Francia ma ben peggiori rispetto a Paesi che percepiamo da sempre come un passo indietro al nostro: Portogallo, Spagna, o Slovenia.

Gli under 35 registrano risultati notevolmente migliori rispetto agli over 35 e ciò è in buona parte dovuto agli investimenti privati. Le famiglie infatti hanno capito l'importanza dell'inglese per i propri figli, mentre le scuole non riescono a rispondere a questo bisogno crescente richiesto dalla società a causa di limiti di budget, docenti che non parlano inglese o percorsi formativi datati.

Ora, il nostro Paese vive un piccolo quanto significativo paradosso: da qualche anno la politica sceglie e fa propri termini in lingua inglese partendo dalla presunzione che l'italiano media possa comprenderli: "welfare state", "jobs act", "spending review" per citarne alcuni. Sarebbe opportuno che le istituzioni, ad ogni livello, si concentrassero più sulla sostanza e comprendessero l'importanza, per il futuro dell'economia italiana, di poter contare su cittadini che parlano inglese.

Reference

http://hdr.undp.org/sites/default/files/hdr2013_summary_italian.pdf
http://www.economist.com/blogs/johnson/2011/04/english
http://www.todayscience.org/JEF/v1-1/JEF.2291-4951.2013.0101003.pdf

Articolo pubblicato sulla rubrica Going Global di International Business Times



sabato 1 novembre 2014

La Cina: minaccia o opportunità?














DI FRONTE si pone la più grande sfida mai lanciata alla povertà dall'uomo: sfida che i cinesi stanno vincendo, almeno per ora. L'ex Premier cinese Wen Jiabao, in un discorso pronunciato negli Stati Uniti, riassume efficacemente i successi cinesi:

"Dal 1978 al 2009 il Pil cinese è cresciuto ad un tasso annuo del 9,9 percento; il Pil pro-capite è aumentato di 12 volte[...]durante questo periodo il commercio estero della Cina è cresciuto da 20,6 miliardi a 2,2 triliardi di dollari[...]siamo il primo produttore mondiale di cereali, carne, cotone, acciaio, carbone, cemento e componenti per televisioni[...]La popolazione povera delle aree rurali è stata ridotta di 214 milioni e l'indice di povertà è sceso dal 30,7% al 3,8%[...]La Cina ha intrapreso nell'arco di pochi decenni un cammino storico che alcuni Paesi industrializzati hanno compiuto in due o tre secoli".

Da 120 a 180 milioni di persone con un reddito medio annuo superiore a 10.000 dollari US: questi sono i numeri della classe media cinese. Scrive il National Geographic: "Le famiglie della classe media posseggono un appartamento ed una macchina, iniziano a mangiar fuori e a fare vacanze, e aver familiarità con brand e idee stranieri". Il Paese conta tra i 400 e i 500 miliardari (in dollari US), il più alto numero al mondo, triplo rispetto agli Stati Uniti: erano 24 nel 2000.

I consumatori cinesi presentano dunque per l'Italia un mercato potenziale enorme: le export italiane possono infatti intercettare sia la fascia dei "superricchi" (tipicamente il settore del lusso) sia i bisogni della classe media: dai sanitari alle bici, dall'agroalimentare alla chimica.

Una seconda opportunità per le imprese italiane - beninteso, di grandi dimensioni - viene offerta dal mercato finanziario cinese: raccogliere liquidità. La Cina è una piazza finanziaria importante: le borse valori di Hong Kong e Shanghai sono, in termini di capitalizzazione di mercato, entrambi tra le prime dieci al mondo. Il settore italiano del lusso ha fiutato l'opportunità e nel 2011 vi è stata la quotazione di Prada, la prima azienda italiana a decidere di quotarsi solo sul mercato asiatico, con risultati peraltro straordinari: la società aveva anticipato che in caso di quotazione a Piazza Affari il valore della società sarebbe stato intorno ai 5,6 miliardi di euro, mentre sulla piazza di Hong Kong il valore saliva a circa 7,5 miliardi di euro.

La Cina infine offre all'intero sistema-Paese almeno due altre occasioni da sfruttare: il crescente interesse economico di Pechino per l'Europa (l'UE è oggi il primo partner commerciale di Pechino) ed il conseguente incremento di investimenti diretti esteri cinesi (6,7 miliardi di dollari investiti in Europa nel 2010), e l'aumento di turisti cinesi nel Vecchio Continente.

Fino alla metà degli anni Novanta solo circa mezzo milione di cinesi visitavano Paesi stranieri. Nel 2011 sono stati invece oltre 57 milioni secondo la China Tourism Academy, di cui il 6 percento diretto in Europa, dove i turisti cinesi spendono per gli acquisti (sono quindi esclusi vitto e alloggio) mediamente oltre un terzo in più rispetto al viaggiatore medio statunitense e giapponese.

La Cina è consapevole della propria forza e del proprio destino, ma è un dato di fatto riconoscere che Pechino è diventata la seconda economia del mondo abbracciando la globalizzazione economica (divenendone uno dei motori principali) pur ricercando una propria via, un proprio modello economico.

venerdì 26 settembre 2014

Myanmar in transition: economic development and shifts in foreign aid from East Asia














ONE OF THE PILLARS of Myanmar’s democratic transition is its capacity to foster economic development through foreign investments. However, a huge infrastructure deficit combined with electricity shortages are serious concerns for foreign companies willing to operate in this promising new market. As Asia’s second poorest country, Myanmar’s leaders need a reliable foreign investor who has both the financial capabilities and the industrial skills to cope with the challenge. This partner is Japan.

Japan extends a helping hand to Myanmar

In 2013 the two countries signed a framework agreement that opened a new chapter in their bilateral ties. Japan has pledged up to $18 billion in new loans to Myanmar, which covers infrastructure development and development of the Thilawa special economic zone near Yangon. In addition, Japan also announced an aid package for water management and a scholarship program for young administrators. Furthermore, Tokyo will forgive $2.7 billion of Myanmar’s debts. Indeed, this look like the unfolding of a strategic partnership bound to last for decades.

But why did not Myanmar sign such an agreement with the People’s Republic of China (PRC), which has had a close economic and political relationship with Myanmar for several decades? Or with the US, the main sponsor of Myanmar’s democratic transition and opening toward the West? There are four reasons Myanmar chose Japan.

The first reason is Japan’s industrial strength in the eyes of Myanmar’s leaders. The world’s third largest economy is an example of unparalleled industrial innovation and efficiency for Asia’s emerging economies—with Myanmar being no exception. The joint communique released after Japanese Prime Minister Shinzo Abe’s visit to Myanmar in May of 2013 explicitly stresses “the importance of Japan’s technical cooperation for institution development and capacity building of the Government of Myanmar.”

Second, Tokyo kept political and economic cooperation alive for decades, notably through economic development aid—the most important of which is the Japan-Mekong cooperation initiative. Official development assistance programs have been booming in recent years, among the most recent projects is a $25 million grant to Yangon Technological University and Mandalay Technological University. This, along with its “business as usual” approach, makes Japan a trusted partner to Myanmar’s government.

Third, corporate Japan has a regional supply chain that makes investments in Myanmar attractive. From Bangladesh to Thailand to Viet Nam, Japanese multinationals send roughly 80% of exports from their Asian subsidiaries to other Asian countries. Japan’s ANA’s recent acquisition of 49% of Asian Wings Airways highlights the optimistic expectations of the growth of Myanmar’s tourism industry. Mitsubishi Electric is a paradigmatic case. The Japanese industrial giant has been doing business in Myanmar since 1960. In April the company announced that its Singapore-based subsidiary, Mitsubishi Electric Asia, will establish a branch office in Yangon to “coordinate Mitsubishi Electric’s efforts to expand business in Myanmar by conducting market research, collecting information and providing support for infrastructure projects and local distributors.”

Fourth, Tokyo has been chosen to limit the PRC’s overwhelming economic influence over the country—with $14 billion of foreign direct investments, Beijing is by far the largest foreign investor. Myanmar President Thein Sein is determined to avoid over-dependence on the PRC, which is also not deemed a reliable partner capable of implementing a sustainable industrial development Myanmar strongly needs.

Throughout the last 15 years the PRC’s aid and influence kept rising to a level that now hinders Myanmar’s “quintessential neutralist stance,” as Professor David Steinberg put it. Beijing has established itself as a key trading partner and has gained considerable economic leverage—notably in northern Myanmar and in much of the border region. PRC companies have not only massively exploited resource-rich Myanmar, but also outperformed local businesses—with the PRC central government unable or unwilling to address the issue. As a result, the PRC’s good neighbor reputation faltered and criticism against PRC businesses emerged.

On the one hand, Myanmar needs Japanese industrial expertise to open up its economy. On the other hand, Japan will be granted privileged access to an important market for the decades ahead. This is a win-win situation for both countries.

The Japanese way to doing business in Myanmar

Myanmar is seen as a new market and huge business opportunity for Western and Asian investors, but it presents equally significant challenges. In this regard the Japanese scheme—which combines governmental support through development assistance and political and cultural relations together with private investments and dynamism—is the one to follow for a business to earn lasting rewards in Myanmar.
_____

References:

Fuji, Yasuhide. 2014. Challenges and opportunites in Myanmar. The Bangkok Post.

Ministry of Foreign Affairs of Japan. 2012. Tokyo Strategy 2012 for Mekong–Japan Cooperation.

JETRO. Ministry of Finance. Trade Statistics.

Mitsubishi. 2014. Mitsubishi Electrics to Establish Branch Office in Yangoon.

Kathleen Caulderwood. 2014. Lingering Fears About Myanmar’s Political And Economic Realities May Hinder Direct Investment. International Business Times.

David Steinber. 2013. Japan and Myanmar: Relationship Redux. Center for Strategic and International Studies

Niklas Swanstrom, 2012. Sino-Myanmar relations: security and beyond. Institute for Security and Development Policy

This article was first published in Asia Pathways, the blog of the Asian Development Bank Institute

domenica 21 settembre 2014

CORSO ONLINE PER ANALISTA IN POLITICA INTERNAZIONALE












UN CORSO ADATTO a chiunque sia appassionato di scrittura ed abbia il desiderio di acquisire capacità di sintesi, oggettività, conoscenza e padronanza nell’uso delle fonti.

Il corso funziona su base individuale, può essere iniziato quando lo desidera il partecipante e garantisce massima flessibilità.

Attraverso la stesura di elaborati attinenti ai temi di attualità politica internazionale, al partecipante viene offerta la possibilità di comprendere, descrivere e partecipare alla narrazione delle dinamiche internazionali, sempre seguito da un tutor durante lo svolgimento del corso.

Uno strumento utile per chiunque voglia avvicinarsi alle complessità e al fascino dell’analisi della politica internazionale.

DESCRIZIONE

Saper analizzare la politica internazionale, saperla comprendere e descrivere richiede un metodo di lavoro; oggettività; conoscenza e padronanza delle fonti; capacità di sintesi e di elaborazione dati. Il Corso online per analisti di politica internazionale si propone come uno strumento utile a quanti vogliano avvicinarsi al mondo della politica internazionale, diventando protagonisti attivi della narrazione delle dinamiche internazionali.

FINALITÀ

Il Corso online per analisti di politica internazionale mira ad offrire una corretta interpretazione delle fonti, ad accrescere le proprie competenze individuali in ambito di scrittura, a migliorare le capacità di sintesi, la padronanza del linguaggio diplomatico, ad acquisire una visione oggettiva ed imparziale della realtà politica internazionale.

ATTIVITÀ

Assegnazione di un tutor per tutta la durata del corso - Consegna di materiale didattico  - Revisione e correzione di 6 elaborati su temi attinenti alla politica internazionale  - Attività approfondita di studio e ricerca - Gli elaborati ritenuti idonei potranno essere pubblicati sulla rivista di geopolitica e relazioni internazionali Equilibri.net

COSTO

Il costo del Corso online per analisti è di € 150,00.

ISCRIZIONE E INFO

Per iscriversi occorre inviare propria conferma di interesse all’indirizzo e-mail info@equilibri.net







lunedì 14 luglio 2014

The Korean Paradox


















 

WHAT IS THE NAME of North Korea’s leader? Why North Korea’s often in the international spotlight? No doubt many readers would know the answers. Now, what is the name of South Korean President? This question would most likely go unanswered. This is indicative of a paradox. European public opinion has a better knowledge of North Korea, an authoritarian regime, one of the poorest and most secretive states in the world, than of the Republic of Korea, its Southern neighbor and a country equally deserving of our attention.

“It's possibile!” - This sign can be found, both in English and Korean, on the facades of skyscrapers under construcion in Seoul, embodying the spirit of a nation which has witnessed Asia's most remarkable economic development of the last four decades behind China.

It is 1963: The Korean War ended ten years before and North Korea has the lead on South Korea both in terms of per capita income and industrial capacity. Now fast-forward to 2013: 50 years later, Seoul's economy is over thirty-nine times bigger than Pyongyang’s and GDP per capita shows a twentyfold gap. In 1960 the ROK was as poor as Ghana; now it holds OECD membership – indeed, South Koreans are very much proud to be the first OECD nation to become a donor afer being an aid recipient, therefore joining the Development Assistance Committee. “A country that lived by the mercy of others is now able to give to others in need and stand shoulder to shoulder with the most advanced countries”, said former President Lee Myung-bak during his inaugural speech.

Over the past 30 years South Korea has caught up with Japan to become one of the highly developed nations in East Asia. “Its income per capita has jumped from less than 20% of Japan's four decades ago to 90% today” – states Professor John West, Executive Director of Asian Century Institute - “but  the catchup vis-a-vis the US is equally impressive: from about 10% of US income per capita in 1970 to 64% today”.

From 1980 to 2010 South Korea's GDP per capita grew more than fivefold (by comparison, Japan's per capita GDP grew by just about 70%). Throughout the last ten years the nominal GDP and the per capita income have grown more than half, with public debt representing only roughly a third of the GDP. According to the IMF, South Korea posted a 2.8 GDP growth in 2013 and is expected to reach a 3.7% growth at the end of 2014, with unemployment faring around 3%.

Seoul is the 15th largest global economic power and the fourth largest in Asia (by GDP in nominal terms). It is also the world's seventh largest exporter and a leading global nation in shipbuilding, production of LCD screens and in the distribution of broadband per capita. It is the third leading nation in the production of semi-conductors, the fifth in automobile manufacturing and in scientific research.

On November 2010 the Republic of Korea presided over the G20 summit. This event was a milestone in the country's modern history, testament to the high esteem in which it is held by the international community and placing Korea amongst the major global economic - although not political - powers of the future. This is not to mention the huge boost to Koreans' national pride, accustomed as they are to deal with two giants as neighbours, China and Japan. Still labelled as an anonymous developing nation a decade ago, Korea is now one of the “Next 11”, a Goldman Sachs term coined to identify the eleven countries thought to have a high potential of becoming, along with the BRICS, the world's largest economies in the 21st century.

South Korea's growing international influence goes beyond the realm of trade and economics. Hallyu, the growing influence of Korean pop culture is running hand in hand with the country's economic success. Korean pop bands, know as K-Pop, have fans in East Asia, North America as well as Europe and Latin America. Korean soap operas can count on millions of viewers in Japan, China, Thailand and Southeast Asia. Korean movies and directors have captured Hollywood attention and amassed international prizes whereas Korean language courses are being initiated all over the world, from Milan to Dubai to Santiago. During her inauguration speech, President Park Geun-hye acknowledged this 'Korean Wave”, saying that it “is welcomed with great affection that not only triggers happiness and joy but one that instills abiding pride in all Koreans”.

Upon entering the WTO in 1995, Korea started to increase its international competitiveness, well aware of how important that is for an export-led economy. During the last two decades Korean governments have been pursuing a two-faceted strategy. On the one hand, they undertook domestic policies aimed at upgrading the economy's industrial structure, easing business regulations and attracting foreign investments. On the other hand, they set a geoeconomic strategy which focuses on the signing of bilateral Free Trade Agreements (FTAs) with meaningful economic players.

After the 1997 financial crisis Korea undertook significant reforms that brought about achievements such as consistent progress on fighting bribery and corruption and enabling foreign companies to better operate in the country. “Financial and economic crises were seized upon by the Korean government as moments for reform and relaunching economic development”, argues Professor John West. In 2011 South Korea entered for the first time the World Bank's Doing Business top ten, which provides an overall "ease of doing business" ranking of 185 economies. Not only did Seoul reduce red tape burocracy and strengthen the protection of investors. It also delivered to its export-led industries world class logistics and infrastructure, transforming the country into one of East Asia's major hubs: Incheon International Airport is one the best airports worldwide whereas the port of Busan ranks in the world's 10th largest. Equally important have been the well-planned investments on soft infrastructure, with internet broadband connection being so widespread and running so fast that online gaming has became a sort of national sport.

Seoul is also one of the world’s most enthusiastic champions of green growth policies. Through the National Strategy for Green Growth (2009-2050) the country “aims to become a leading exporter in the area of green research and technology”, as the OECD reported. The Global Green Growth Institute, established in Seoul in 2010, stands to prove the nation's commitment on pursuing a development model which fosters at the same time economic growth and environmental sustainability.

Competitiveness is deemed so important that in 2008 former President Lee Myung-bak set the Presidential Council on National Competitiveness (PCNC), which well represents the nation’s focus on competitiveness. The PCNC has four main missions: bringing about regulatory reforms, innovation within the public sector, investment promotion and legal and institutional advancement. The PCNC’s ultimate goal is “expanding the potential growth rate to 7 percent by promoting investment and enhancing economy-wide efficiency.” This goal is to be reached partly through the opening of the domestic market to foreign products and companies.

The increasing economic clout of South Korea is represented by its dynamic free trade agreements strategy, which are part of the “Global Korea” economic diplomacy strategy. Since the establishment of the FTA Roadmap in 2003, Korean governments have engaged in FTA negotiations with more than 50 countries. The signing of FTAs with both the European Union (2010) and the USA (2011) represents for Seoul a winning strategy to enhance future economic growth opportunities as well as deal with the growing influence of China. It is also a clear, landmark step towards South Korea’s further integration within the global economy and next-level relations with the West. According to economists, the US-Korea FTA would increase South Korea GDP between 0.38% and 2.41% whereas the U.S. economy would grow 0.02 to 0.2%. US exports to South Korea would rise by half and US imports from South Korea would rise by one-third. The Korea-EU FTA is estimated to increase South Korean exports of roughly 6 percent and EU exports of more than 1 percent along with creating between 300,000 and 600,000 jobs. According to the Italian Trade Commisson, the tariff reductions will bring about savings for those companies exporting machineries, chemical, fashion and food products – all industries where Corporate Italy holds a comparative advantage. Another crucial FTA was signed with Chile in 2002, for it opened to Korean companies the doors of South American markets.

If Brazil is the Latin American role model, and South Africa the example for the rest of its continent, Korea is certainly starting to be perceived as the successful case study in Eastern Asia of the last decade. Sure enough, Seoul has major challenges in the years ahead: among the most urgent are the improvement of income equality; an aggressive development of services, a troubled demographic transition, poor record in labour productivity and attraction of foreign direct investments. That said, South Korea is a country that weds a model of sustainable economic development with following its democratic obligations in a region where a ubiquitous political instability reigns, mostly caused by North Korea. Let’s talk more about the Korea that counts.

Article published on Globalisation Café

domenica 13 luglio 2014

Asian Century, Australia and Europe

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Emanuele Schibotto, ACI's Director for Development, recently interviewed John West on the Asian Century, Asia and Europe, for a book he is writing on the Asian Century. Here is the interview:
 
What are the most important features of the Asian Century?
 
The most important feature of the Asian Century is the renaissance of the Asian economy, after a couple of centuries of relative decline.

Asia's economy has been on an upward trend since Japan started its post-war recovery. Asia's weight in the world economy has risen from about 20% to 30% of global GDP these past couple of decades. But it is still well below its share of the world population, about 60%. If Asia's economic renaissance continues, it could account for 60% of the world economy sometime in the second half of the 21st century. Another way of expressing the same idea is that Asia's GDP per capita is well below the global average. Thanks to its dynamic economic performance, it is realising its potential to catchup to and possibly even surpass the global average.

This increase in Asia's economic weight is changing economic and political power relationships between Asia and the rest of the world, especially the West, with China and perhaps India now emerging as new global powers. It is also changing power relationships between the West's Asian allies (like Japan and Korea) and other Asian countries, notably China.

Will the Asian Century result in a "return of history" to Asia's pre-colonial dominance, or will we see a mere steady growth of Asia's global influence?

Historically, Asia always had the world's largest population and GDP. But its GDP fell behind the West through the 19th and 20th centuries, due to adverse effects of Western and Japanese colonisation and internal unrest in countries like China. The rapid economic progress of the West, thanks to the Industrial Revolution, meant that Asia slipped even further behind in relative terms.

Although Asia always had the world's biggest economic weight, it was never a global power in the past. Until the past few centuries, it was virtually impossible for countries to become global powers, like the US is today, because of the limited level of technological development. Even during the Ming Dynasty, China never had the naval or military resources to colonize Europe, in the same way that European powers were subsequently able to colonize much of the world. In East Asia, China was arguably a regional power, through its tributary (suzerainty) relations with many of its neighbors.

While Asia will overtake the West in economic size in the coming decades, it is quite unlikely that Asia will overtake the West in terms of GDP per capital or level of technological development for a very long time, if ever. Asia will long remain a continent with a large population, which is less prosperous and technologically advanced than the West.

At the present moment, it is also difficult to say that Asia is a coherent region, in the same way that the West is a coherent group. Asia does not have deep forms of political and economic cooperation like NATO (North Atlantic Treaty Organization), EU (European Union), ANZUS (Australia, New Zealand, United States Security Treaty) or even NAFTA (North Atlantic Free Trade Agreement). Indeed, the strongest Asian international relationships are the US-Japan Alliance and US-South Korea Alliance.

As it is today, Asia is defined by its diversity in terms of political systems, economic development, and culture. It is also defined by the rivalries and tensions that exist between many of its countries. We can validly question whether Asia even exists!

In short, it is very difficult to see how Asia could become a world leader, in the same way the West has been. Asia is very big, but not very powerful. Most Asian countries are more concerned with domestic problems, than international ones. No Asian countries are promoting universal values, like the West has done. Moreover, Asia has been a great beneficiary of the Western designed international system as it is, and does not appear to have any alternative to propose.

In conclusion, we are moving into a multi-polar world, where the West and the Western-designed international will still dominate, but where power is increasingly shared with Asia and other emerging economies. What is most striking in this geopolitical landscape is the decline in Europe's influence and relevance, as it is preoccupied by internal EU problems, and also as its military spending declines.
 
In its 2012 Asian Century White Paper, the former Australian government places the country's future squarely in Asia. Is it a statement of intentions or reality? Is Australia turning away from the US and Europe towards Asia?
 
Australia has been deepening its economic and political relationships with Asia ever since Japan began its post-war recovery. The 2012 White Paper should be seen as just another step in Australia's progressively closer linkages with Asia. Asia is now a much more important Australian trading partner than Europe or North America. Although Asian investment in Australia is on the rise, the stock of European and North American investment is still much higher. Asian migration to Australia is increasing strongly, making Australia a proudly multicultural country.

Australia has very close political relationships with some Asian countries like Japan, Korea and Singapore, and is developing relations with others. But Australia's political relationships remain strongest with the US, UK and other Western countries -- that is, countries with which Australia shares common values, like pluralist democracy, respect for human rights and market economy.
 
How do you see prospects for the Australian economy? Can it achieve a path of sustainable development?
 
There is every reason to believe that the Australian economy will continue to perform well in the years ahead. Indeed, Australia has had one of the best performing economies of the advanced OECD group for over two decades. As for every economy, continued success requires sound macroeconomic management, investments in human capital and infrastructure, and structural reform.

Australia has benefited greatly from the Asian Century boom, through the high demand for its natural resource exports. But as Asia's middle classes become a growing feature of the region, Australia should seek to take more advantage of the opportunity of exporting services to them, and rely less on exporting natural resources. Indeed, Australia's natural environment has suffered from its resource-based development. Much greater attention will be required to ensure that Australia achieves a path of sustainable development.
 
What are the main incentives and risks of investing in Australia?
 
Australia has always been a very attractive destination for foreign investment. In fact, modern Australia has been substantially built through foreign investment from Europe, North America and more recently Asia. Australia offers investors a relatively open market, rule of law, good infrastructure, a well-qualified work force, a vast range of natural resources, and a prosperous local market.

Once an investment is accepted in Australia, there are very few risks for investors, beyond normal business risks. Foreign investors must however do their homework because the investment environment is different in each and every country.

Investment proposals, especially in the natural resources area, may be closely scrutinised by environmental activists, labour unions and the media. Investors must be prepared for this. There have been cases of investors from non-democratic countries who have experienced challenges navigating the complexities of a vibrant democracy, with an active civil society.
 
What should European companies and entrepreneurs understand and know about Australia?
 
Australia is similar to Europe in many respects. It has a parliamentary democracy and a legal system based on the British system. It has a multicultural society, formed through several waves of migration from Britain and Ireland, continental Europe, and now Asia. Australia is a "new world" country, with a pioneering spirit, and is less bound to traditions than Europe.

Despite these obvious points, European countries and entrepreneurs should also do their homework before they come to Australia. Europeans should not imagine, because they have a longer and deeper history than Australia, that they are more sophisticated than Australians. Australia scores better than most European countries in the OECD's PISA exercise (Programme for International Student Assessment) for the level of education of 15 year old students. There have also been fifteen Australian winners of the Nobel Prize.

Australians also have a more "sunny" disposition than most Europeans, perhaps reflecting the agreeable climate. However, this invariably hides a tough, pragmatic and realistic nature. Australia's fighting spirit is on display for the world to see every four years at the Olympic Games, where Australia regularly outperforms most European countries.

Do you consider Australia a "globalization winner"?
 
Modern Australia is a product and a symbol of globalisation. Its modern development was propelled by migration, trade and investment, initially from Europe. Australia gradually forged its own identity over the decades. With the abolition of the "White Australia" policy some four decades ago, and the arrival of modern globalization following the end of the Cold War and the renaissance of Asia, Australia is becoming a microcosm of globalisation.

Australia's successful economic, social and political development should serve as a model for much of today's globalizing world. The US should look closely at Australia's prudent banking sector, and restrictive gun laws. Europe would benefit from Australian policies for sustainable public debt management and harmonious multicultural societies. And Asia would gain from Australian-style open markets and democratic politics.

At the same time, to remain a winner of globalization, Australia could learn many lessons from the rest of the world -- like East Asia's excellence in education, Northern Europe's concern for environmentally sustainable development, and the US's innovative and risk-taking business culture.
 
John West is Asian Century Institute Executive Director
 
Article previousyly published on Asian Century Institute

martedì 24 giugno 2014

Venezuela: nell'attesa di un leader

Graffiti, Caracas (Luca Marfé Photo)














PUBBLICHIAMO un intervento sulla situazione attuale in Venezuela da parte della giornalista venezuelana Angélica Maria Velazco Jaimes - @angelicavelazco

Una signora di 53 anni è stata "da tutta una vita" una seguace di Hugo Chávez e del suo progetto politico di sinistra. Adesso non è più tanto convinta della situazione attuale: è consapevole della crescente insicurezza, della scarsità di alcuni prodotti e del possibile crollo dell'economia. Nonostante ciò, commenta che in caso ci fossero in questo momento le elezioni per scegliere un nuovo Presidente e si presentassero delle figure come Enrique Capriles, Leopoldo López o María Corina Machado, lei voterebbe un'altra volta per Maduro perché non si identifica con nessuno degli altri. Sono le contraddizioni del sistema, come direbbe lo stesso Marx nel suo famoso "Il Capitale".

Dopo più di tre mesi di proteste contro il governo di Nicolás Maduro e un bilancio di 42 morti, più di 1.800 incarcerati, innumerevoli feriti e alcune città messe sottosopra, il  panorama è triste: non c'è ancora nessun cambiamento tangibile. Vi sono soltanto alcuni tentativi di pace e di dialogo che però rimangono inconcludenti. Il problema è facilmente collegabile con la mancanza di una figura forte che possa raccogliere il meglio di entrambi gli schieramenti per aggruppare attorno a sé tutti gli insoddisfatti che si trovano in mezzo a una polarizzazione ancora più marcata. Cos'è successo alla crisi dei leader in Venezuela dopo la morte di Hugo Chávez?

Nessuno, sia il PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela) che la MUD (Mesa de la Unidad Democrática) offre una informazione oggettiva, adatta a risolvere i problemi che toccano la porta di tutte le case, ogni giorno e senza distinzione alcuna. Sembra che le figure politiche navighino alla deriva cogliendo delle idee in aria per ripetere, come i pappagalli, parole che nascono dalla testa di alcuni notabili: «Tutto è colpa dell'impero statunitense» dicono da un lato, mentre che dall'altro «il governo e l'eredità lasciati da Chávez sono la peggior cosa che sia mai esistita».

Secondo uno dei padri della sociologia, Max Weber, esistono tre tipi di leadership: legale, tradizionale e carismatica. La prima tipologia si adegua ai tempi attuali, identifica delle capacità e delle competenze che non lasciano spazio alla componente emozionale o affettiva; allo stesso tempo questa persona deve essere pragmatica, risoluta e avere la capacità di lavorare con gli altri. Il leader tradizionale invece rappresenta un simbolo ed ogni volta è più debole, come nel caso delle monarchie: anche se rimangono culturalmente dei simboli importanti, dal punto di vista politico hanno un potere ridotto. Il terzo è il tipo carismatico: la persona viene considerata superiore agli altri. Quest'ultimo è il più primitivo, basato sul personalismo, l'autoritarismo e l'emotività superiori alle capacità; esempi ne sono Mussolini in Italia, Hitler in Germania e Chávez in Venezuela.

Sembra che ai venezuelani siano sempre piaciute personalità appartenenti al terzo gruppo. Questo popolo è caratterizzato dalla voglia di un leader "con i pantaloni", "che arrivi a mettere tutto in ordine", "con carattere", "che sia come me", come dice la gente per le strade. Così persone come il Generale Ángel Vivas cominciano ad essere ammirate, senza ricordare che anche Chávez ha cominciato sostanzialmente nella stessa maniera. Riportando ancora più indietro la Storia ritroviamo altri leader populisti e di "carattere" di un Venezuela che sembra amare in fondo lo stivale militare. Per capire bene, e non ripetere la stessa storia piena di sbagli, si deve essere consapevoli che la leadership venezuelano è stato sempre il prodotto delle gaffe dei regimi precedenti che non prendevano in considerazione la volontà popolare al momento delle decisioni. Questo è stato il caso di Chávez, che senza dubbio è stato un leader diverso, con un discorso populista e un marketing politico senza precedenti. Tuttavia questa figura ha indebolito le altre a tal punto che la gente non trova nessun'altra personalità capace di guidare il gigante petrolifero. Dopo di lui, su di chi può contare il Venezuela?

Alcuni anni fa si parlava di avere un Chávez di opposizione, o di un militare con capacità. Quasi mai si parla di una leadership rinnovato e moderno; semplicemente si riduce tutto a "questo mi è simpatico" ma "quell'altro no".

Oggigiorno il Venezuela conta con una Mesa Dell'Unità (MUD) frammentata. Da ogni angolo si presentano alcuni esperimenti di leader di opposizione che lanciano messaggi contrastanti: un messaggio oggi ma un altro diverso domani. Come diceva Enrique Capriles: «Ci sono compagni dell'opposizione che cercano di farsi vedere più di altri, ma quello che devono fare è guidare il popolo affinché il Paese possa trovare una via di uscita reale e costituzionale». Ecco una MUD che di unità non ha nulla, un Leopoldo López in carcere e una María Corina che parla, a volte, nelle piazze.

Dall'altro lato, c'è un Presidente senza carisma e tempra, che cerca invano di emulare il suo predecessore, provocando un sentimento avverso nella stessa popolazione chavista. Quelli che sono al potere manifestano la voglia di continuare con il progetto iniziato da Chávez, ma sembra che il debole leader non sappia come fare. Come riportavano pochi messi fa le dichiarazioni di Diosdado Cabello, il presidente dell'Asamblea Nacional: «[l'opposizione] dovette pregare molto perché Chávez rimanesse in vita. Perché lui era il terrapieno di molte delle idee folli che ci vengono in mente». Il risultato: tutti, sia governo che opposizione, parlano molto ma non dicono nulla.

Nelle parole dei protagonisti dei conflitti attuali, gli studenti, Marco, un universitario di 22 anni commenta: «Il tema dei leader in Venezuela è complicato. Maduro è una persona incapace e incompetente la cui unica conquista è imitare al suo leader defunto Hugo Chávez. Non abbiamo fiducia nei partiti politici di opposizione. Leopoldo e María Corina, nonostante l'incarceramento del primo, non hanno saputo entrare ancora nel cuore del popolo».

L'economista, professore universitario ed opinionista Luis Vicente León lo spiega bene nel suo articolo "Las guarimbas y el barranco": «Quelle persone [i protestanti] vogliono canalizzare la loro energia nella ricerca di una soluzione, ma non hanno trovato nulla e nessuno che gliela offra in maniera razionale e strutturata. Quindi esplodono. Ma lo fanno senza avere un piano né un obiettivo concreto, né un'articolazione formale (...). E non è la loro colpa non sapere come esprimersi efficacemente. La colpa, o almeno una grande parte di questa, è di una leadership perduta, divisa, disarticolata e incapace di guidare questa energia e collegarla con strade creative, articolate e più sofisticate del lanciare le pietre o bruciare l'immondizia vicino a casa loro che, inoltre, non è la strada del destinatario della protesta».

E così si fa tutto in Venezuela, senza un orizzonte fisso al quale aspirare. Mancano delle idee chiare. Sembra che questo Paese sia indeciso nella scelta tra due tipi di pena di morte, ma alla fine vi è la morte certa perché non arriva l'avvocato in tempo per salvarlo.

La ragione principale dell'esistenza e utilità dei leader è che questi aiutano a produrre i cambiamenti necessari di una società. In La Repubblica, Platone parla di un nuovo sistema di governo che deve cercare la felicità degli individui e non dei burocrati e dei guardiani. E questo è proprio il problema in Venezuela, dove purtroppo i leader semplicemente cercano la felicità (tradotta in denaro) soltanto per quelli che li stanno vicini sotto la stessa coperta del potere. In questo senso, il Paese petrolifero non ha bisogno soltanto di un leader ma anche di un cambiamento di mentalità. Il vero leader politico deve motivare invece di manipolare. È la differenza che stabiliva lo storico Andrew Roberts quando analizzava le diversità tra Hitler e Churchill. Roberts racconta che quando la gente finiva di parlare con il primo pensava che quell'uomo era capace di fare qualsiasi cosa, ma quando parlavano con Churchill credevano che erano loro stessi capaci di fare qualsiasi cosa. È la discrepanza fra una leader democratico che crede nelle capacità della gente e uno autocratico che aspira ad accentrare il potere.

Il professore Guilio Santosuoso lo diceva nel suo scritto quasi profetico del 1992 "Reinventar a Venezuela": «La società ha bisogno di un cambiamento che è tanto evidente negli ultimi anni, da non essere necessario discuterne. L'interrogativo che è sempre rimasto senza risposte, fino adesso, è chi condurrà questo processo».

Mentre non esiste una figura con delle idee nuove, non contaminate, senza tanta fame di potere, è più importante che il popolo venezuelano ricordi gli errori della storia, se non vuole continuare a vivere in un anarchia non dichiarata. Abbiamo bisogno di un leader più maturo di quelli che abbiamo avuto prima in grado di condurre la grande petroliera verso un porto sicuro.

Articolo precedentemente pubblicato su Equilibri.net

domenica 8 giugno 2014

Il deal energetico Russia-Cina e le implicazioni per Pechino

Il 21 MAGGIO SCORSO la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese hanno siglato uno storico accordo energetico. I termini dell'accordo e gli effetti sulla politica energetica di Pechino.

I termini dell'accordo

Mercoledì 21 maggio i rappresentanti di Gazprom e Cnpc, sotto la supervisione dei rispettivi governi, hanno firmato a Shanghai l'accordo che permetterà alla Russia di aprirsi al mercato energetico cinese e alla Repubblica Popolare di assicurarsi approvvigionamenti sicuri per i prossimi 30 anni.

Le parti non hanno divulgato i termini commerciali dell'accordo, tuttavia alcuni dati sono di dominio pubblico. L'accordo entrerà in vigore nel 2018 e avrà durata trentennale. Mosca si impegnerà a rifornire Pechino con 38 miliardi di metri cubi di gas naturale attraverso la costruzione in territorio cinese di tratte di collegamento del gasdotto transiberiano “Forza della Siberia”. Costo previsto: dai 22 ai 30 miliardi di dollari. L'intesa economica sarebbe stata raggiunta ad un prezzo compreso tra i 350 e 360 dollari per mille metri cubi, vicino alle richieste cinesi e lontano dai $380,5 strappati da Mosca ai Paesi dell'Europa Occidentale. Il prezzo più basso ottenuto da Pechino sarebbe però compensato dall'impegno finanziario cinese nella costruzione dei nuovi gasdotti.

La stretta finale

L'accordo, il cui valore totale è stimato in 400 miliardi di dollari, chiude un ciclo di negoziazioni durato oltre dieci anni, con i primi contatti avviati sul finire degli anni Novanta.

E' probabile che l'accelerazione alla finalizzazione del deal, avvenuta negli ultimi mesi, sia stata provocata da due fattori. Da un lato la crisi ucraina, con la conseguente instabilità geopolitica e la minaccia di sanzioni mirate al settore energetico russo per parte occidentale - favorendo peraltro la posizione negoziale cinese. Dall'altro, il persistere della crisi economica in Europa. Basti osservare le proiezioni statistiche del Fondo Monetario Internazionale sulle stime di crescita del PIL dell'area Euro e della Cina nei prossimi 5 anni per capire come la Russia avesse necessità di finalizzare: l'area Euro non si avvicina al 2% di crescita media annua e manifesta una domanda energetica stagnante - se non in calo - mentre la Repubblica Popolare viaggia oltre il 6,5 percento. “38 miliardi di metri cubi sono solo l'inizio” - ha dichiarato Alexei Miller, Amministratore Delegato di Gazprom. L'intesa infatti prevede la possibilità di portare la fornitura a 60 miliardi di metri cubi sfruttando giacimenti della Siberia Centrale e Orientale diversi da quelli adoperati per rifornire gli oltre 161 miliardi di metri cubi destinati al mercato europeo.

Le implicazioni per Pechino

L'accordo è funzionale agli interessi energetici cinesi per 3 motivi.

In primo luogo, consente di incrementare la sicurezza sugli approvvigionamenti energetici. La US Energy Information Administration (EIA) stima che nel 2014 Pechino diventerà il maggior importatore netto di petrolio, superando gli USA, e sarà responsabile per un terzo dell'incremento del suo consumo a livello mondiale. Anche l'utilizzo di gas naturale, benché contribuisca solo al 4% del fabbisogno aggregato nazionale, è in aumento considerevole e passa necessariamente attraverso le importazioni. In questo senso il gas russo, in grado di coprire circa il 10% del fabbisogno di gas naturale nazionale previsto per il 2020, diviene una ipoteca sull'aumento della domanda energetica.

In secondo luogo, l'accordo consolida una nuova rotta energetica - quella di nordest – inaugurata nel 2011 con l'inizio della costruzione dell'oleodotto di importazione Mohe-Daqing (forniture di 30 milioni di tonnellate l'anno). La nuova rotta va ad aggiungersi alle tratte di nordovest (Turkmenistan-Kazakistan) e alle rotte di sudest (Myanmar) e sudovest (Stretto di Malacca), aree queste ultime dove persistono tensioni geopolitiche latenti che accrescono il rischio di instabilità politica. Pechino quindi diversifica le opzioni di offerta e diminuisce la dipendenza da un singolo fornitore.

In terzo luogo, il gas russo andrà a ridurre la dipendenza dal carbone, di cui la Cina è primo consumatore mondiale e del quale si serve per quasi il 70% del suo fabbisogno. L'obiettivo del Governo è limitare l'inquinamento ambientale attraverso una graduale riduzione del numero di centrali a carbone, la messa in sicurezza di quelle operative, la bonifica delle aree contaminate e l'intensificazione del processo di diversificazione delle fonti. Il dodicesimo piano quinquennale (2011-2015) stabilisce il raggiungimento del 15% del fabbisogno energetico primario proveniente da fonti non fossili entro il 2020. Sempre entro lo stesso anno il Paese dovrà poter contare su forniture annue di gas naturale pari a 420 miliardi di metri cubi.

Conclusioni

L'intesa energetica raggiunta porterà ad una intensificazione delle relazioni economico-commerciali, con l'obiettivo dichiarato dai Presidenti Vladimir Putin e Xi Jinping di raddoppiare in dieci anni il valore dell'interscambio bilaterale (oggi 90 miliardi di dollari). Non solo: l'accordo certifica la volontà di accelerare il processo di normalizzazione dei rapporti politici comportando una riconfigurazione dei rapporti di potenza nella macro-regione asiatica.

Articolo pubblicato su AgiEnergia

domenica 4 maggio 2014

Intervista sulla globalizzazione: Manfred Steger















ABBIAMO avuto il piacere di intervistare Manfred Steger, tra i massimi esperti di globalizzazione. Steger è Professore di Scienze Politiche alla University of Hawai’i-Manoa e ricercatore presso il Globalization and Culture Program in RMIT University’s Global Cities Research Institute.  

CI PUO' DARE LA SUA DEFINIZIONE DI GLOBALIZZAZIONE? 
La globalizzazione è l'espansione e l'intensificazione delle relazioni sociali e della consapevolezza sociale nel mondo sotto il profilo sia temporale che spaziale. E' un fenomeno multi-dimensionale che coinvolge l'economia, la cultura, l'ideologia, l'ambiente e la tecnologia. 

NEL SUO LIBRO "GLOBALIZATION: A VERY SHORT INTRODUCTION" LEI PARLA DEI TANTI ASPETTI DELLA GLOBALIZZAZIONE. MOLTI DI NOI HANNO FAMILIARITA' CON LA DEFINIZIONE DI GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA MA POCHI CONOSCONO LA GLOBALIZZAZIONE POLITICA - DI COSA SI TRATTA ESATTAMENTE?

La globalizzazione politica è l'intensificazione e l'espansione delle interrelazioni politiche nel mondo. Questi processi fanno emergere una serie di tematiche politiche importanti che riguardano il principio della sovranità degli Stati, l'impatto sempre maggiore delle organizzazioni intergovernative, gli sviluppi futuri della governance regionale e globale e le politiche ambientali che influiscono sul nostro pianeta.

Ovviamente, questi temi rispondono all'evoluzione dei sistemi politici oltre alla struttura dello stato-nazione, portando quindi una innovazione concettuale e istituzionale. In fin dei conti, negli ultimi secoli gli esseri umani hanno modellato le proprie differenze politiche attorno a delle linee territoriali che hanno generato una senso di "appartenenza" a un determinato stato-nazione.

Queste differenze hanno portato in evidenza tre questioni fondamentali che sottolineano l'influenza della globalizzazione politica. Primo, siamo proprio sicuri che il potere degli stati-nazione sia stato eroso dagli ingenti flussi di capitale, persone e tecnologia che varcano le barriere territoriali? Secondo, le cause principali di questi flussi sono da ricercarsi nella politica o nell'economia? Terzo, stiamo osservando l'emergere di nuove strutture di global governance? Prima di rispondere a queste questioni nel dettaglio sarebbe utile soffermarsi sulle caratteristiche principali del sistema moderno di Stato-nazione.

PUO' PORTARE UN ESEMPIO DI STATO CHE HA GESTITO CON SUCCESSO LA GLOBALIZZAZIONE NEGLI ULTIMI DUE DECENNI E UN ESEMPIO INVECE DI FALLIMENTO?

Forse i successi più impressionanti sono quelli riportati dalla Corea del Sud e dal Brasile, mentre i fallimenti maggiori sono la Corea del Nord e l'Iran.

SCRIVE RANA FOROOHAR IN 'TIME MAGAZINE' CHE NEGLI ULTIMI DUE ANNI IL COMMERCIO MONDIALE HA REGISTRATO UNA CRESCITA INFERIORE ALL'AUMENTO DEL PIL GLOBALE PER LA PRIMA VOLTA DALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE. INOLTRE, GLI USA NON AGISCONO PIU' DA "SPUGNA GIGANTE" PER L'ECONOMIA MONDIALE, ANZI SI CHIUDONO NEL LORO GUSCIO. LEI PENSA CHE IL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE STIA INVERTENDO LA ROTTA? 

Non ritengo che sia corretto affermare che gli USA si stanno ripiegando su se stessi sotto il profilo economico. Semplicemente non dominano più l'economia mondiale con la stessa entità di venti o trent'anni fa. Inoltre, se guardiamo alle forti tendenze nazionaliste (anti-immigrazione) di destra presenti in diversi Paesi europei, come l'Ungheria, la Grecia l'Austria o la Svizzera, sarebbe più appropriato definire queste dinamiche come "globalizzazione  in retromarcia". 

NEL LIBRO "L'ERA POST-AMERICANA" FAREED ZAKARIA SOSTIENE CHE GLI STATI UNITI SONO STATI CAPACI DI GLOBALIZZARE IL MONDO MA NON SONO RIUSCITI A GLOBALIZZARE SE STESSI. QUAL E' LA SUA OPINIONE AL RIGUARDO?

Non credo che un singolo Stato-nazione sia in grado di "globalizzare" il mondo da solo - nemmeno gli Stati Uniti. La globalizzazione è un processo a lungo termine che, nel corso di molti secoli, ha superato determinati passaggi chiave. Il più recente si è verificato negli anni '80/'90, quando gli USA sembravano essere la sola "superpotenza" mondiale. Tuttavia, con il senno di poi possiamo invece dire che gli ultimi due decenni hanno preparato il terreno per l'ascesa dell'Asia.

Dato che la globalizzazione è un fenomeno multi-dimensionale, non ha senso discutere del fallimento degli Stati Uniti nel "globalizzare se stessi". Se prendiamo ad esempio le dimensioni economica e culturale, gli USA sono molto più globalizzati dell'Europa. Se invece facciamo riferimento alla dimensione ideologica, Washington segue l'Europa, dove gli elettori godono ancora di maggiori scelte ideologiche. 

RITIENE CHE IL 21 SECOLO SIA IL SECOLO ASIATICO? OPPURE L'OCCIDENTE GODRA' ANCORA DI UNA PREMINENZA IN TERMINI DI INNOVAZIONE, RICERCA E SVILUPPO E EDUCAZIONE?

In teoria sono d'accordo, il 21 secolo appartenga all'Asia. Questo però non significa che dovremmo aspettarci un declino del potere militare e del sistema educativo degli Stati Uniti o del potere culturale e del sistema educativo dell'Europa in un prossimo futuro. Di certo l'Asia emergerà gradualmente come un uguale a USA e Europa. Da tenere sotto osservazione anche l'ascesa di Australia e Brasile.

Reference:

domenica 13 aprile 2014

Aumenta l'export con i consigli dell'UE
















"SE TI VENDO QUALCOSA, parlo la tua lingua, ma se vuoi vendere qualcosa a me, dann müssen Sie Deutsch sprechen!" (devi parlare tu tedesco)  (Willy Brandt, ex cancelliere tedesco)
 
Una ricerca condotta dalla Commissione europea sulle piccole e medie imprese esportatrici evidenzia come l'insufficiente conoscenza delle lingue straniere sia un problema europeo (quindi non solo italiano) estremamente serio, provocando la perdita reali di opportunità di business (almeno 40 milioni di euro stimati dalle 200 imprese intervistate).

Lo studio indica quattro consigli per implementare la corretta strategia linguistica e aumentare le esportazioni (tra parentesi, segnaliamo casi aziendali e testimonianze):

1. Impiego di società locali per risolvere problemi linguistici
"Per le 200 aziende intervistate, l'impiego di traduttori e/o interpreti professionisti ha contribuito ad incrementare il fatturato del 7,4%"

2. Assunzione di personale madrelingua
"L'azienda ha cominciato a comunicare con il mercato spagnolo in inglese, ma non riusciva a faro in modo adeguato. Nonappena ha assunto un dirigente in grado di parlare perfettamente spagnolo, la situazione è radicalmente miglirata" (Fotona, Slovenia)

3. Scelta di personale dipendente con competenze linguistiche
"Uno studio sui responsabili delle assunzioni a livello internazionale ha riscontrato che nove capi del personale su dieci considerano la capacità di parlare un'altra lingua un elemento fondamentale per avere successo in Europa, Asia-Pacifico e America Latina"

4. Elaborazione di un piano di strategia linguistica
"Il successo dell'azienda è in parte dovuto alla strategia di gestione linguistica. La compagnia ha assunto personale con le competenze linguistiche richieste sui mercati tedesco, francese, russo, statunitense e ucraino, e il suo sito internet è tradotto in ciascuna di queste lingue" (Baest, Repubblica Ceca)
... e qui sotto riportiamo le lingue più usate dalle PMI europee per le esportazioni:

1.inglese        51%
2.tedesco     13%
3.francese      9%
4.russo              8%
5.spagnolo      4%
6. altre           15%

Articolo pubblicato da International Business Times nel blog Going Global

sabato 29 marzo 2014

Berlin - Beijing booming economic relations












THE BOOMING of conomic relations between Germany and China (PRC) is the result of an emerging special relationship that has implications way beyond trade, argues Emanuele Schibotto, ACI Director for Development.

Since the resumption of diplomatic ties in 1982 Germany favoured the “business first” policy towards China. From the small and medium-sized companies (the so-called Mittelstand) to multinationals, Corporate Germany understood way before its European competitors the business opportunites offered by emerging economies – with China being the first and biggest bet.

German pragmatism paid off. From 1995 to 2010 German exports increased sevenfold whereas its imports of Chinese goods increased by 800%. Since 2002 China is Germany's second main export destination outside Europe. In 2009 China became Germany's first supplier and it is now its third largest trading partner, with bilateral trade volumes exceeding 140 billion euros in 2011. Today Berlin accounts for more than 25% of Chinas' total trade with Europe. It is without any doubt the most influential European player in China.

Further enhancing economic relations with China is instrumental to Germany for three main reasons. Firstly, Berlin goal is to boost trade flows with non-European countries in an effort to diversify export destinations and hold a strategic presence into one of the most dinamic regions of the globe.

A recent Asian Development Bank report estimates that Asia's contribution to world GDP will top 50% by 2050. German companies still depends massively on Europe – over 70% of their exports is shipped to European countries whereas 7 products out of 10 imported in Germany comes from the Old Continent. However, this is changing fast. If bilateral trade relations were to continue at the current pace, then Beijing would become Germany's number one trading partner by 2020.

Secondly, China is deemed fundamental to keep Germany manufacturing primacy. German firms foresaw Beijing's preminent role in the global supply chain years before their rivals.

Volkswagen is a paradigm case. One of the first international automakers to venture into China, Volkswagen first took contact in 1978 as the Chinese government decided to open up to foreign enterprises under Deng Xiaoping. In 1984 it established the Shanghai - Volkswagen Automotive Company joint venture. The following year production started.

China is now the Volkswagen Group’s largest sales market with a share of 20 percent of the passenger car market and sales of 2.8 million vehicles in 2012. “We have always assumed that growth won't occur primarily in Europe, but in China, Russia and in South and North America”, Volkgwagen Group CEO Martin Winterkorn said in a recent interview with Spiegel.

Along with Volkswagen there are over 2,400 companies operating in China, the majority of which are medium-sized or small, making the PRC the top foreign investment destination for German companies. Corporate Germany did not only saw China as the world's factory, rather it undertood its huge potential as a consumer market. The number of cities with more than a million residents is set to double by 2025 – from 120 to 240. According to McKinsey, by 2022 more than 75 percent of China’s urban consumers could earn as much as Italy's (in purchasing-power-parity terms).

Thirdly, the German government eyes the growing interest of Chinese investors in Europe. Over the past 10 years the number of transactions between Chinese and European companies has more than tripled.

In 2013 alone investors from the Chinese mainland and Hong Kong have taken over 120 companies and shareholdings in Europe. "Chinese companies create jobs when they invest in Germany, and are very welcomed," said German Economy and Energy Minister Sigmar Gabriel when celebrating the opening of the new Chinese Chamber of Commerce in Germany last month. According to the PRC's Ministry of Trade, Germany is the European country with the best investment opportunities. China is the second largest non-European investor in Germany after the United States.

Investments are piling up. Sany, a Chinese multinational heavy machinery manufacturing company, acquired German mid-sized company Putzmeister, a leading manufacturer of concrete pumps. Lenovo took over the electronics company Medion. Weichai Power bought a stake in Kion, the largest forklift truck maker in Europe. The Chinese Central Bank, through the State Administration of Foreign Exchange, has acquired a 3.04 percent stake in Munich Re, a world leading reinsurer. According to data provided by the Chinese Chamber of Commerce, more than 2,000 Chinese companies are operating in Germany and have invested 2.7 billion Euros by September 2013.

This emerging special relationship is mutually beneficial for China. Berlin is the PRC's strategic foothold in Europe, with Chinese companies gaining insights into European markets. Furthermore, the presence of high-tech German companies in Chinese soil and Chinese-German scientific and academic collaboration help the Asian giant advancing on the tecnology frontier. Industries such as automotive, pharma, renewables and high-technology in which Germany is a world champion are all considered strategically vital by Chinese political and economic leaders. Germany is not only China’s number-one trade partner in the EU, it is also the only country to collaborate with Beijing on its space programme.

Finally, as Germans continue to import ever more goods China's dependence on its traditional trade partners - USA and Japan - is progressively decreasing.

Article previously published on paper by Longitude and  online by the Asian Century Institute

sabato 22 marzo 2014

Ridefinizione dei rapporti Cina-India

















“LA CINA E' UN PAESE molto più ricco di tutte le contrade d'Europa”, scriveva Adam Smith nel 1776. La Cina e l’India, le due voci più importanti del cosiddetto “Secolo asiatico”, fino alla prima metà del Diciannovesimo secolo totalizzavano circa la metà del Pil mondiale.  Nel 1750 le regioni corrispondenti alla Cina e all’India odierne raggiungevano quasi il 60% della produzione manifatturiera globale. L'India dominava incontrastata il mercato del cotone e l'industria tessile, mentre la Cina doveva la sua importanza alla forte produttività nei settori agricolo, industriale e commerciale, senza dimenticare la posizione dominante nel mercato dell'oppio, nel quale a fine '800 divenne “il cuore della produzione mondiale”.

Entrambe in rapida espansione, entrambe alla ricerca di maggior influenza regionale, entrambe concorrenti in ambito energetico ed alimentare, India e Cina intendono riprendere il filo dei rapporti amichevoli intrattenuti durante gli anni Cinquanta, celebrando quest'anno il sessantesimo anniversario dei Cinque Principi della Coesistenza Pacifica, elaborati da Jawaharlal Nehru e declinati in una serie di accordi firmati dai due Paesi nel 1954. I cinque principi regolano le relazioni bilaterali e comprendono il rispetto per l’integrità territoriale;  la non aggressione reciproca;  la non interferenza negli affari interni; uguaglianza e benefici comuni; coesistenza pacifica. 

L’esigenza di rilanciare uno schema di coesistenza pacifica è avvertita da ambo le parti, ma è soprattutto l’India ad aver cambiato prospettiva. Fino a tempi recenti, al Ministero degli Esteri indiano il pensiero comune era il seguente: sia l’India che la Cina sono convinte di essere dalla parte giusta della Storia; non possono avere entrambe ragione. Ora, invece, la visione indiana sta lentamente cambiando. Sebbene i punti di contrasto siano notevoli e di carattere permanente (dalla disputa di confine, ritornata di attualità con le schermaglie degli ultimi mesi, alla deviazione del corso dei fiumi ad opera cinese, dalla questione tibetana alla riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite), Nuova Delhi e Pechino devono necessariamente imparare a coesistere, facendo leva sugli interessi comuni: dal contrasto del terrorismo internazionale all’intensificazione del commercio e bilaterale e regionale. 

Il 2014 è stato dichiarato l'”anno dell'amicizia”, con l'obiettivo di “aumentare la comprensione e la cooperazione tra questi due grandi Paesi”. Comunicati ufficiali a parte, il buon andamento dei rapporti tra India e Cina è un imperativo non solo per la prosperità asiatica, ma anche per il mantenimento della pace e sicurezza internazionale con implicazioni che vanno ben oltre il Golfo del Bengala o il Mar Cinese.

domenica 9 marzo 2014

Le 7 criticità della politica italiana

Il Quarto Stato, Giuseppe Pellizza da Volpedo











IN UN CONTESTO geoeconomico nel quale la competizione tra Stati è sempre più intensa e aggressiva, il buon funzionamento della res publica diviene fondamentale per garantire la competitività al sistema-Paese. Il professor Sabino Cassese nel libello L'Italia: una società senza Stato? individua sette "tratti fondamentali negativi" che caratterizzano il sistema politico italiano e che limitano il pieno sviluppo dello Stato e di riflesso ne riducono proiezione e competitività internazionale.

1. Costituzionalizzazione debole
Non solo la costituzione dell'Italia Unita si basò sul preesistente Statuto Albertino ma soprattutto non fu "partecipata" dal popolo. Cassese fa notare la differenza tra "una costituzione che sia l'atto di un governo" e "la costituzione con cui un popolo constituisce il proprio governo". Cassese inoltre spiega come la Costituzione del 1948 risulti imperfetta e di fatto debole poiché "è insufficiente il sistema dei checks and balances" ed è stata "smembrata nell'attuazione, che si è protratta per quasi un quarantennio".

2. Distacco tra società e Stato
"Per due terzi della storia unitaria, sono stati pochi i cittadini ammessi a partecipare alla vita collettiva attraverso elezioni", spiega il giurista. Un distacco forte tra "Paese reale e Paese legale, cittadini e autorità" che ha provocato una pesante sfiducia (tuttora presente) degli italiani verso uno Stato incapace di garantirne alcuni diritti fondamentali. Ricorda Cassese che dall'Unità a 1970 circa 26 milioni di italiani hanno "votato coi piedi" lasciando il Paese.

3. Il Divario Nord-Sud
Per Cassese nel nostro Paese "è la società che domina lo Stato, non il contrario". Anzi, potremmo scrivere le società, usando il plurale, vista la spaccatura tra le due anime del Paese sotto il profilo amministrativo, economico e culturale. Il divario Nord-Sud ostacola quel sentimento di unità nazionale che Mazzini chiamava "anima della nazione". 

4.Giuridicità debole
Cassese per giuridicità debole fa espressamente riferimento alla legislazione derogatoria, la quale fa si che "l'ordinamento giuridico, in principio retto da un diritto codificato" venga completato da "una sorta di disobbedienza legale fatta da norme speciali, straordinarie, eccezzionali, derogatorie". Il risultato? Troppe norme e deroghe, troppa poca trasparenza. 

5. L'instabilità degli esecutivi
Multipartitismo e localismo rendono il "centro motore dello Stato", vale a dire il Governo, incapace di agire. I trascorsi fascisti, con il potenziamento della figura del capo del governo, spiegano la scarsa incisività riconosciuta dalla Costituzione al Governo e alla Presidenza del Consiglio.

6. Burocrazia incapace
In sostanza, in Italia manca un corpo di funzionari esperto, scelto in base al criterio della meritocrazia in grado di assicurare il rispetto delle regole e di fungere da esempio, quindi svolgere "un'attività educativa". Questo perché la burocrazia si è sviluppata seguendo "pressioni e contingenze esterne" e le regole e i principi dettate da esigenze dello Stato.

7. Il falso centralismo e la fuga dallo Stato
Cassese ritiene che, per quanto concerne l'esperienza italiana, il centralismo sia "un grande mito polemico" e abbia di fatto oscurato il vero problema del Paese: la "fuga dallo Stato". Considerando lo Stato un ente debole si è fatto ricorso a forze esterne con l'intento di rafforzarlo - segnatamente  altri Stati o organismi superiori (come l'UE); organismi esterni ( le "amministrazioni parallele") di cui la Cassa del Mezzogiorno è l'esempio principe; forme di "supplenza privata" utilizzate per supplire alle carenze tecniche della pubblica amminsitrazione (dalla figura dei notai a quella dei progettisti). 

Per approfondimenti

S. CASSESE, L'Italia: una società senza Stato? Il Mulino, 2011

Articolo precedentemente pubblicato da International Business Times nel blog Going Global