sabato 28 novembre 2015

Europa tra passato e futuro: conversazione con Massimo Cacciari

Geopolitica.info ha intervistato Massimo Cacciari, Professore emerito di Filosofia, Università Vita Salute San Raffaele di Milano, sulle crisi che sta attraversando l’Unione Europea, la centralità della Germania, la fragilità della Francia. - See more at: http://www.geopolitica.info/leuropa-passato-futuro-conversazioni-massimo-cacciari/#sthash.FoUdtJLn.dpuf












PER GEOPOLITICA.INFO ho intervistato Massimo Cacciari, Professore emerito di Filosofia, Università Vita Salute San Raffaele di Milano, sulle crisi che sta attraversando l’Unione Europea, la centralità della Germania, la fragilità della Francia.

Il 9 novembre 1989, quindi una generazione fa, è caduto il muro di Berlino. Data altrettanto importante ma meno famosa è il 1 novembre 1993, con l’entrata in vigore del trattato di Maastricht e la nascita formale dell’Unione Europea. Dieci anni fa questa data veniva celebrata, ora si ha la percezione di un lutto. Cosa ha portato a questa ondata di disillusione verso l’UE?

Sia festa che lutto mi sembrano termini del tutto esagerati. Non mi ricordo queste grandi feste 10 anni fa. Allo stesso modo, la situazione attuale è difficilissima e drammatica ma aspetterei a definirla lutto. L’operazione di costruzione dell’Europa si è ingrippata quando venne gettato il cuore oltre l’ostacolo con l’Euro, prima di pensare a politiche sociali e fiscali comuni. Fu una mossa audace, e non ricordo nessun festeggiamento popolare in quel caso. Una classico caso di rivoluzione dall’alto. Era inevitabile che si arrivasse ad una situazione difficile. D’altro canto, la crisi economica del primo decennio del 2000 ha accelerato la crisi, ma non l’ha certo prodotta. Non solo si è costruito un Euro che non poteva neppure essere gestito per conto suo, senza politiche sociali e fiscali comuni. Si è continuato a gettare il cuore oltre l’ostacolo con il processo di allargamento, portando dentro il perimetro europeo Paesi per nulla pronti a fare questo passo. O si recupera i ritardi oppure il rischio è che si celebri davvero il lutto dell’Europa.

A proposito di ritardi dell’UE, come legge la possibilità di una accelerazione dei negoziati per l’adesione della Turchia? Le sembra un fuoco di paglia oppure una risposta pragmatica alla questione immigrazione?
Ci mancherebbe altro. Ci mancherebbe solo di accogliere 75 milioni di musulmani, con un regime politico la cui democraticità e tutta da vedere, con all’interno una minoranza etnica importantissima nella lotta contro l’ISIS ma osteggiata da Ankara. Vorrebbe dire aggiungere una crisi non necessaria.

Qual è il pericolo maggiore per la continuazione del Progetto europeo? Una Germania incapace o non desiderosa di guidare l’Europa oppure una Francia persa in se stessa?

Le concause sono difficili da leggere. Sicuramente per i motivi detti in precedenza. La Germania al momento è ancora lungi da assumere una leadership europea, non sa se ne ha la volontà e tanto meno la capacità. La Francia è messa male come noi: la grandeur è un pallido ricordo. Si poteva pensare ad un asse franco-carolingio che potesse durare nel tempo, ma si è rivelato invece incapace di agire e di ascoltare. L’Europa dimostra così una debolezza incredibile, non vi è mai stata una così grande afonia politica dalla Seconda Guerra mondiale in poi. Non vi è nessuna centralità politica, così come avveniva durante il confronto USA-URSS.

L’Economist ha definito Angela Merkel l'”Europeo indispensabile” perché “non tratta l’UE come un pungiball, bensì come un pilastro di pace e prosperità”. Anche lei pensa che la Merkel sia necessaria?

La Merkel è necessaria, senza dubbio. Senza una Germania che appoggi una linea riformista, per quanto timida, collasseremo in qualche mese.

Nel 1954 De Gasperi pronunciava questo discorso: “Bisogna riconoscere che la vera e solida garanzia della nostra unione consiste in una idea architettonica che sappia dominare dalla base alla cima, armonizzando le tendenze in una prospettiva di comunanza di vita pacifica ed evolutiva.” Sono parole diversissime da quelle usate dalla classe politica europea. Servono altre guerre per ritornare a ragionamenti simili?

La Storia ci dice che le grandi classi dirigenti si formano a seguito delle guerre – per quanto vi sia chi afferma che le guerre sono inutili. Le classi politiche attuali europee scontano la fine della Guerra fredda e del periodo di confronto bipolare USA-URSS. Pensiamo alla classe politica italiana: viveva di una grande centralità perché le decisioni prese dal nostro Paese risultavano decisive. I politici non erano più competenti prima o meno competenti oggi; semplicemente le loro decisioni non godono della stessa centralità. Si tratta di una astuzia storica.

Reference

sabato 10 ottobre 2015

Germania Nummer Eins: lezione geopolitica per l'Italia

Angela Merkel/Bundsregierung















PUBBLICO parte della prefazione scritta da Paolo Savona per il mio ultimo libro Nummer Eins: la Germania spiegata agli italiani. Savona è Professore emerito di Politica economica e cultore di Geopolitica economica.

Schibotto si prefigge un duplice obiettivo: pervenire a una spiegazione complessiva della strategia vincente della Germania, dato che si dispone solo di numerose ricerche su singoli aspetti della stessa, e tentare di trarre da questa analisi un insegnamento utile per un miglior funzionamento del sistema Italia.

Le risposte che l’autore fornisce ai due quesiti, corredandole con un’ampia dotazione statistica, si basano sulle diversità di approccio geopolitico economico dell’azione dei due paesi: proiettato all’esterno e basato sulla forza economica quello tedesco e proiettato all’interno e pregno di ideologie politiche quello italiano. La frase di chiusura del lavoro è rappresentativa di quello che ritengo essere la parte nuova degli studi di geopolitica economica:

«Agli inizi del XXI secolo la Germania “potenza civile” ha conquistato de facto l'Europa pur senza impiegare un solo soldato».

L’Autore di questo studio sulla Germania Nummer Eins ricorda che al momento dell’unificazione con la Germania Est, caduta sotto dominio sovietico dopo la sconfitta bellica, la politica seguita dal Governo tedesco occidentale fu oggetto di critiche per le restrizioni monetarie, le rigidità del mercato del lavoro e un welfare troppo generoso che le avevano valso l’accusa di essere il “malato d’Europa”.

Lo shock dell’unificazione fronteggiato da una politica di larghezza finanziaria pubblica e di più stretta collaborazione con il mondo del lavoro, questa favorita dal mantenimento di una efficiente rete di welfare, e la nascita dell’euro la cui azione era vincolata per volontà dei tedeschi sul piano sia monetario che fiscale, ha rovesciato questa situazione, elevando la Germania unita sul piano geopolitico, non solo europeo.

I principi su cui si fonda questo successo sono sintetizzati dall’Autore nel termine Ordnung, che egli traduce in «senso del dovere; organizzazione; spirito collaborativo; cultura d'impresa; sistema elettorale e ruolo dei partiti; policentrismo» applicati al raggiungimento di quattro obiettivi di geopolitica e geopolitica economica: «mantenimento dell'economia sociale di mercato; salvaguardia della base industriale; valorizzazione della ricerca e dell'innovazione [e più oltre aggiunge «l'eccellenza scolastica e la formazione professionale»]; promozione della reputazione internazionale del Paese e contestuale ricerca di nuove opportunità economico-commerciali».

Taluni auspicano che il nostro Paese segua il modello economico tedesco, e vi sono regioni che già lo approssimano, come il Veneto e la Lombardia. Negli ultimi due anni, infatti, il surplus della nostra bilancia corrente estera in presenza di una disoccupazione crescente e un welfare in via di indebolimento, dimostra l’analogia dei modelli perseguiti, ma Schibotto esclude che questa possa essere la via della ripresa italiana perché «il sistema valoriale tedesco di stampo ordoliberale è in sostanza non replicabile per l’Italia».

Tratta questa conclusione, l’Autore fornisce una spiegazione delle diversità dei sistemi valoriali, concentrandosi in particolare sul dualismo Nord-Sud italiano, che va oltre le diversità strutturali nei saggi di crescita della produttività in quanto ha origine, come precisato dalle ricerche della Banca d’Italia, nelle carenze di “capitale sociale”, dall’inefficienza della pubblica amministrazione alla carenza di infrastrutture economiche, all’eccesso di criminalità.

Il lavoro di Emanuele Schibotto è andato alla ricerca dei fondamenti del successo geopolitico economico tedesco.

Schibotto conclude con una proposta plausibile sul piano della strategia geopolitica: «è auspicabile – se non necessario – che l’Italia segua un sentiero costituito da riforme strutturali inserite in un piano strategico nazionale che porti anzitutto alla riduzione del divario economico Nord-Sud e alla massima resa delle specializzazioni produttive nazionali: turismo, settore agro-alimentare e comparto manifatturiero di media e alta tecnologia.

Ciò che emerge dalla ricerca condotta sono i riflessi dell’inadeguatezza dell’architettura istituzionale europea sulla quale la Banca Centrale Europea e il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo – ossia i due organi sovranazionali che hanno poteri di scelta relativamente autonomi – hanno agito apportando con difficoltà e nei tempi lunghi una qualche correzione, senza però pervenire alla soluzione prevista dai Padri fondatori: la nascita di uno Stato europeo propriamente definito.

Estratto della prefazione del libro Nummer Eins: la Germania spiegata agli italiani (GoWare, 2015)

sabato 5 settembre 2015

¿Por qué ‘Alemania über alles’?
















Berlín emerge cada vez más como la mente maestra de la Unión Europea, así como el país más popular del mundo, superando a Estados Unidos. ¿Cómo ha podido una nación que hasta hace una década era conocida como “el enfermo de Europa” convertirse de nuevo en una apisonadora económica y política?

Hoy en día Alemania ha alcanzado la primacía en la Europa continental por su actuación como “potencia civil”; sus ventajas siendo su peso económico y político, en lugar de su ejército. El enorme esfuerzo económico que la Bundesrepublik llevó a cabo tras la reunificación absorbió todas sus energías durante los siguientes 20 años. De acuerdo con economistas y observadores internacionales, en las raíces de los problemas experimentados por Alemania a lo largo de la segunda mitad de la década de los noventa hasta la Gran Recesión se encuentra el shock provocado por la reunificación, unido a un mercado de trabajo demasiado rígido, un Estado del Bienestar generoso y una política monetaria restrictiva. A medida que el nuevo milenio comenzaba, Alemania consiguió un progreso sustancial en varios indicadores, desde el crecimiento del PIB per cápita hasta el freno de la deuda pública federal.

En un mundo en proceso de globalización en el cual la conquista ha dejado paso a la influencia, 
Alemania ha descubierto el camino para la supremacía europea sin emplear un ejército, en contraste con los intentos previos llevados a cabo por el Kaiser Guillermo II y Hitler. La Alemania del siglo XXI no es una “potencia fascista” sino más bien una “potencia geoeconómica” que persigue sus intereses nacionales abiertamente y sin molestarse en buscar compromisos; ese peso recae en los otros miembros de la UE, que tienen que ajustarse a la posición de Berlín.

Una Alemania mucho menos “altruista” ha implementado con éxito tanto una eficiente estrategia geoeconómica que le permitió llevar a cabo unas reformas estructurales necesarias a nivel doméstico, como una estrategia geopolítica en torno a una sólida diplomacia económica a través de la cual Berlín ha creado compromisos con actores internacionales clave. De este modo, Alemania favorecía sus exportaciones y aseguraba sus necesidades energéticas. Berlín maximizaba su poder blando.

Los principales actores socioeconómicos alemanes –partidos políticos, sindicatos y patronales de las compañías manufactureras y de servicios– se pusieron de acuerdo en cuatro objetivos a largo plazo para el país: el mantenimiento del modelo de economía social de mercado; la defensa de la base industrial; el fomento de la innovación a través de la I+D; la promoción de la reputación internacional del país y la búsqueda de nuevos mercados internacionales para el comercio. La recuperación económica de Alemania demuestra que es posible cambiar el propio curso, y en el proceso volverse de nuevo competitivo.

Ahora bien, a pesar de la expectación despertada por el “ejemplo alemán”, el Ordnungsystem germano –su peculiar sistema de valores ordoliberales– no puede ser imitado.  Lo que otros países europeos (y no europeos) deberían hacer es estudiar el paradigma alemán para aprovechar las prácticas más adecuadas para su camino de reformas, con un firme compromiso por mejorar la competitividad. Tomemos a Italia como ejemplo. El Belpaese, liderado por el primer ministro más joven de Europa, Matteo Renzi, necesita construir e implementar una estrategia geoeconómica nacional dirigida a “modelar la globalización”, favoreciendo sus ventajas comparativas (manufacturas de media y alta gama, negocios de comida orgánica y su patrimonio natural y cultural) y llevar a cabo una política exterior a largo plazo basada en una diplomacia económica eficaz (exactamente lo que hizo Alemania).

Por supuesto, Alemania no es inmune a los problemas. Por mencionar solo unos pocos, su economía es demasiado dependiente de las exportaciones, su gobierno presenta uno de los niveles de inversión pública más bajos de Europa y la población se reduce desde 2003. Además, el creciente peso alemán a nivel europeo está causando bastante suspicacia.

Sin embargo, debe reconocerse que después de 25 años de la caída del muro de Berlín y el final de la división Este-Oeste, la Alemania unida representa la historia de un éxito. Berlín afrontó los desafíos derivados de la globalización a través de una mejora de sus sistemas económicos y sociales, al tiempo que mantenía sus valores propios y su identidad nacional.

Articulo publicado por Politica Exterior 

 

sabato 8 agosto 2015

Una nuova Cina, una vecchia Europa












LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE sta cambiando ad una velocità e intensità tali da confondere gli stessi cinesi, e questo può rendere il cambiamento particolarmente pericoloso sul piano geopolitico. Sul tema Geopolitica.info ha avuto il piacere di conversare con Francesco Sisci, autore del libro “A Brave New China”, già corrispondente da Pechino di Ansa, La Stampa e IlSole24Ore e tra i massimi esperti europei di Cina.

Nel suo ultimo libro spiega come la Cina odierna sia “non più la vecchia Cina”, ma un Paese profondamente diverso. Un Paese che di fatto ancora fatichiamo a comprendere. Qual è stato il cambiamento maggiore, il più profondo degli ultimi 30 anni?

È difficile indicarne solo uno, in realtà è un cambiamento radicale del modo di vita, che va dal modo di vivere, di abitare: le case sono diverse, i vestiti sono diversi, anche le cose da mangiare sono diverse, persino il modo di tagliarsi i capelli. Forse il singolo cambiamento più grande riguarda la famiglia e i figli. Si tratta di un cambiamento mastodontico, specialmente per la società cinese, una società senza un grande senso di divinità, dove il rispetto degli antenati e il rispetto dei figli sono il grande filo conduttore, sono una religione. Si è passati prima del ’49 da una famiglia che aveva idealmente un marito e un gruppo di mogli con 3 generazioni di figli, tutti ordinati secondo nomi specifici, a una famiglia nucleare fatta di un figlio unico. La famiglia ora prevede una moglie e un figlio e, cosa molto importante, questo è stato fatto come un sacrificio di sangue importante: 400 milioni di bambini sacrificati. È  stato fatto con calcolo, hanno ucciso quello che per loro è più caro, sull’altare del progresso.

Da quanto racconta nel libro si ha la percezione che la Cina sia vittima di un paradosso: cresce il nazionalismo diretto al riconoscimento del più vecchio Stato-civiltà, come scrive Henry Kissinger, ma allo stesso tempo proprio quella civiltà si allontana dalle sue radici fino al punto di non riconoscersi. É così?

È proprio così. In realtà il vecchio Stato-civiltà era tale perché non aveva bisogno di affermarsi, era in qualche modo metafisico. Era uno Stato isolato. L’insieme dei Paesi che la circondavano non avevano la metà della forza cinese, oggi invece questo non è più cosi. Il resto del mondo rende la Cina nana: conta solo il 20% della popolazione e il 10% del Pil mondiali. Naturalmente, in questo mondo i cinesi devono affermarsi, e nell’affermarsi l’idea di Stato-civiltà nega se stessa, non funziona. Ci sarebbe bisogno un nuovo principio unificante e anche di un nuovo modo di pensare il mondo.

Cosa non riusciamo a comprendere, oggi, in Occidente e soprattutto in Europa, in merito al cambiamento in atto? Cosa ci sfugge?

Non solo noi non capiamo, ma anche i cinesi non capiscono. I cinesi sono cambiati, ma guardano il mondo con i concetti filosofici antichi. Rimane sempre una discrasia: si racconta l’urbanizzazione con il modo di pensare della giungla, l’occidentalizzazione con delle categorie cinesi. È una cosa sistematica, un processo: i cinesi non hanno smesso di cambiare. Quello che oggi si dice per la Cina tra 6 mesi o 1 anno non sarà più valido. Quello che è importante per noi è che se la Cina è disposta a fare questi cambiamenti per sopravvivere così dovremmo fare anche noi, invece abbiamo smesso di cambiare, paradossalmente come quando l’ondata non ci ha colpito.

Le molte speculazioni e osservazioni fatte in Occidente su una Cina sempre più aggressiva sono accurate, oppure risultano sovrastimate?

La Cina di per sé cresce, e come un elefante quando cresce oggettivamente diminuisce lo spazio altrui. Inoltre è un elefante molto sensibile, sente che gli altri sono nervosi e si innervosisce a sua volta. Un fenomeno di nervosismo reciproco molto forte e molto pericoloso, ma diverso dalla pericolosità del fascismo, o del comunismo, dagli estremisti pseudo-musulmani. Queste sono ideologie nettamente aggressive, i cinesi invece non hanno questa ideologia dichiarata, però oggettivamente il loro peso specifico è tale che tutti gli equilibri vengono incrinati.

Come valuta i rapporti attuali di Pechino con gli altri due giganti economici della regione, Giappone e Corea del Sud? Cosa impedisce ai tre Paesi di seguire un processo di trasparenza storica così come avvenuto ad esempio tra Germania e Polonia?

Non c’è stata l’America. Gli USA hanno impedito a Francia e Germania di ripescare nella loro storia, unendoli nella CECA e nella NATO. Così in realtà l’America ha cambiato la Storia. Questo non è avvenuto in Asia per motivi complessi, tra cui il fatto che durante la Guerra fredda la Cina era da una parte, la Corea era spaccata, il Giappone nell’altro blocco. Adesso vi è il doppio rischio: gli strascichi della fine della Seconda Guerra mondiale e la fine della Guerra fredda, che ancora non è finita perché la Cina è ancora (almeno in parte) comunista. Sono due eredità che si sommano.

Qual è il principale problema nelle relazioni Pechino-Washington?

La crescita cinese è un punto di domanda enorme per entrambi. I cinesi non sanno cosa vogliono fare da grandi, e questo amplia tutto, diventa un problema globale. Però come si fa a discutere di questo problema globale che è allo stesso tempo anche nazionale con tutti sospetti e le paure attuali, con gli americani interessati sembra solo a bloccare la Cina?

Mentre le relazioni con Washington subivano degli alti e bassi, i rapporti con i paesi dell’UE sono aumentati costantemente negli ultimi 20 anni, fino alla clamorosa adesione dei principali Paesi europei alla Asian Infrastructure Investment Bank. Per la Pechino l’UE e’ un territorio di conquista oppure un partner di pari livello?

La realtà è che l’UE non esiste, questa è la premessa. In realtà per la Cina esiste un rapporto in primo luogo con la Germania, poi con Francia e Inghilterra. Questa è la realtà. Poi vi sono i sogni, e i cinesi sognerebbero da anni che l’UE emergesse come Paese unitario e quindi fosse un partner, anche capace di controbilanciare il rapporto con l’America. Questi però appunto rimangono sogni, perché come vediamo con la situazione greca siamo ben lontani dall’aver una “unione europea”.

Secondo un recente studio della società di consulenza McKinsey, la Cina sta perdendo terreno sul piano dell’innovazione. Negli ultimi 5 anni l’innovazione ha contribuito al 30% della crescita del Pil, mentre dal 1990 al 2010 la percentuale era superiore al 40%. Con una popolazione che invecchia, un debito che aumenta e un ritorno sugli investimenti che si riduce, non e’ un bel segnale. É  d’accordo con questa analisi?

La Cina secondo me non ha mai fatto mai della grande innovazione. Il problema fondamentale è che non producono tecnologie nuove. Come farai ad essere la prima economia del mondo senza tecnologie innovative? Qui si parla di innovazioni marginali, possono essere o rubate o derivanti da altre risorse: non dimentichiamo che la Cina continua ad avere grandi risorse, tra cui popolazioni vicine, bengalesi, vietnamiti, che le consentono un aumento della produttività. Questi dati e queste statistiche meccaniche e grossolane non sono fondamentali. Negli ultimi 40 anni storia quello che ho visto è che quasi tutti hanno preso un aspetto e ne hanno dedotto che venendo meno quell’aspetto tutto sarebbe crollato. La verità è che la Cina è una enorme balena, servono tanti “ostacoli” per farla crollare. Tornando alla domanda, il problema è la mancanza di innovazione alta, che continua ad essere prodotta per l’85% in Europa e Stati Uniti. E così continuerà ad essere, secondo quanto prospettano, per i prossimi 50 anni.

Concludo chiedendole se secondo lei il XXI secolo sarà il “Secolo asiatico”, il “Secolo cinese” o si continuerà con un nuovo  “Secolo americano”?

Dipende da quale prospettiva lo vediamo. I modelli di grande crescita, in cui sarà amministrato e pensato il mondo, continueranno ad essere europei (perché in questo anche l’America è un estensione dell’Europa). Quantitativamente l’Asia sarà molto importante, ma la differenza tra quantità e qualità è un concetto molto importante e delicato. Ancora oggi, dopo un secolo dal crollo dell’impero britannico, l’Inghilterra continua ad essere il fulcro del pensiero (pensiamo alla sue università, ai principali giornali, alla BBC). Che questo cambi la vedo molto difficile. Quantitativamente però è diverso, e qui l’Asia guiderà, in particolare la Cina.

L'intervista a Francesco Sisci è stata pubblicata su Geopolitica.info



domenica 2 agosto 2015

Il Divario Nord-Sud problema numero uno dell'Italia

















PUBBLICHIAMO un articolo uscito su La Stampa che fotografa senza giri di parole il principale problema del nostro Paese: il Divario Nord-Sud.

Peggio della Grecia

Nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%) e il Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud nel 2014 ha toccato il punto più basso degli ultimi 15 anni, con il 53,7%. Secondo il rapporto «dal 2000 al 2013 il Sud è cresciuto del 13% la metà della Grecia che ha segnato +24%: oltre 40 punti percentuali in meno della media delle regioni Convergenza dell’Europa a 28 (+53,6%)». 

Il Divario con il Nord

In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2014 è sceso al 53,7% del valore nazionale, un risultato mai registrato dal 2000 in poi. Lo scorso anno infatti quasi il 62% dei meridionali ha guadagnato meno di 12 mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord. Nel dettaglio a livello nazionale, il Pil è stato di 26.585 euro, risultante dalla media tra i 31.586 euro del Centro-Nord e i 16.976 del Mezzogiorno. A livello di regioni il divario tra la più ricca, Trentino Alto-Adige con oltre 37 mila euro, e la più povera, la Calabria con poco meno di 16 mila euro, è stato di quasi 22 mila euro, in crescita di 4 mila euro in un solo anno.

Lo tsunami demografico

Colpisce la frenata nelle nascite. Svimez spiega come nel 2014 al Sud si siano registrate «solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia». Il Sud, avverte il rapporto «sarà interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili». «Il Sud è quindi destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27,3% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%», sottolinea il rapporto. 

“Desertificazione industriale"

Dal 2008 al 2014 il settore manifatturiero al Sud ha infatti perso il 34,8% del proprio prodotto, contro un calo nazionale del 16,7% e ha più che dimezzato gli investimenti (-59,3%), tanto che nel 2014 la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil è stata pari al Sud solo all’8%, ben lontano dal 17,9% del Centro-Nord. Dato che fa il paio con la caduta delle esportazioni che in nel Centro-Nord salgono del 3% e al Sud crollano del 4,8%. Ecco perché «il Sud è ormai a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all’area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente.

Occupati in calo

«Il numero degli occupati nel Mezzogiorno, ancora in calo nel 2014, arriva a 5,8 milioni, il livello più basso almeno dal 1977, anno di inizio delle serie storiche Istat». «Tornare indietro ai livelli di quasi quarant’anni fa testimonia, da un lato, il processo di crescita mai decollato, e, dall’altro, il livello di smottamento del mercato del lavoro meridionale e la modifica della geografia del lavoro» si legge nello studio che sottolinea come i 6 milioni siano anche una quota psicologica. Il tasso di disoccupazione arriva nel 2014 al 12,7% in Italia, quale media tra il 9,5% del Centro-Nord e il 20,5% del Sud. Nel 2014 i posti di lavoro in Italia sono cresciuti di 88.400 unità, tutti concentrati nel Centro-Nord (133 mila), mentre il Sud ne ha persi 45 mila. 

Uno su tre sull'orlo della povertà

Rimane il dato che tra il 2008 e il 2014 delle 811 mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro ben 576 mila sono residenti a Sud. Situazione difficile in particolare per le donne che, tra i 15 e i 34 anni sono occupate al Sud solo una cinque. Per quello che riguarda i giovani Svimez parla di una «frattura senza paragoni in Europa»: il Sud negli anni 2008-2014 ha perso 622 mila posti di lavoro tra gli under 34(-31,9%) e ne ha guadagnati 239 mila negli over 55, con un tasso di disoccupazione under 24 che raggiunge il 56%. Questa situazione porta a credere che studiare non paghi più, «alimentando così una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata». Tutto questo si riflette nel rischio povertà che coinvolge una persona su tre al Sud e solo una su dieci al Nord. La regione italiana con il più alto rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%) ma in generale al Sud è aumentata rispetto al 2011 del 2,2% contro il +1,1% del Centro-Nord.

Reference:

giovedì 2 luglio 2015

GREXIT: Trattative, referendum e scenario politico-economico















IN ATTESA di conoscere domenica l’esito di una consultazione referendaria che probabilmente segnerà il destino economico e politico della Grecia e dell’intera Unione Europea, proviamo a ricostruire sinteticamente alcuni dei passaggi e dei dati fondamentali dell’improvvisa escalation iniziata il 27 giugno scorso.

La Grecia non rispetta la scadenza del prestito FMI

A seguito della fallimentare riunione del Consiglio Europeo del 27 giugno il Governo greco decide di declinare la proposta di UE, FMI e BCE e indire sulla stessa un referendum in programma domenica 5 luglio. Atene inoltre non onora 1,55 miliardi di euro dovuti al FMI il 30 giugno come parte del programma di aiuti finanziari da 21,2 miliardi di euro.

Riprende il dialogo ma non le trattative

Il 30 giugno la Commissione Europea invia ad al Governo greco una nuova proposta, alla quale Atene risponde il giorno successivo rilanciando con una contro-proposta. I temi del contendere: aliquote IVA, età pensionabile, spese del bilancio militare e tassazione di imprese e fasce più alte.

L’Unione Europea e l’Eurogruppo, trainati da Berlino, decidono a questo punto di non proseguire con le trattative fino al voto referendario.

Anche FMI e BCE si adeguano mostrando una posizione attendista. L’istituto di Francoforte sottolinea che “opererà in stretta collaborazione con la Bank of Greece per preservare la stabilità finanziaria” ma che manterrà invariato “il livello massimo stabilito per l’erogazione di liquidità di emergenza (Emergency liquidity assistance, ELA) alle banche greche”.

La (es)posizione dell’Italia

Secondo il Ministero dell’Economia l’Italia è esposta direttamente nei confronti della Grecia per un totale di 35,9 miliardi di euro, suddivisi in 10,2 miliardi di prestiti bilaterali e di 25,7 miliardi di contributi versati dal nostro Paese al fondo salva-stati.

La posizione dell’Italia la esplicita in maniera chiara il Primo Ministro Renzi in una intervista concessa al Sole24Ore del 30 giugno: “Nel merito l’Italia ha tentato fino all’ultimo di riportare buon senso e ragionevolezza, contribuendo all’ultima proposta della Commissione, quella più favorevole alla Grecia. Il no di Alexis e dei suoi mi è sembrato inutilmente ostinato”.

Un’economia al collasso

Stando ai dati Eurostat e OCSE il debito greco sfiora il 180% del Pil, la disoccupazione supera il 26%, il Pil è sceso di quasi il 5 punti percentuali all’anno negli ultimi 5 anni, la spesa media delle famiglie è scesa di un quarto mentre gli investimenti si sono ridotti del 9% dal 2010 a oggi.

Articolo precedentemente pubblicato su Geopolitica.info


sabato 20 giugno 2015

Le crisi europee, l'UE e la difesa dell'interesse nazionale: a colloquio con Gianfranco Fini



















GEOPOLITICA.INFO ha intervistato Gianfranco Fini, Presidente dell'associazione Liberadestra, ex Ministro degli Esteri e Presidente emerito della Camera dei Deputati, conversando ad ampio raggio sulle crisi che circondando l'Europa, il ruolo dell'Unione Europea, l'interesse nazionale e le prerogative della politica estera italiana.

Presidente, seguendo la cronaca politica italiana abbiamo l'impressione che i cittadini italiani, ma gli osservatori internazionali, non riescano a percepire quali sono i capisaldi della nostra politica estera. Ci può spiegare la sua definizione di interesse nazionale e quali sono secondo lei le linee programmatiche sulle quali basare per l'Italia l'implementazione di tale concetto?

La difesa dell’interesse nazionale nell’epoca della globalizzazione presuppone la piena consapevolezza che un paese come il nostro deve avere un ruolo attivo in primo luogo all’interno delle organizzazioni internazionali, e sovranazionali, in primis l’Unione Europea. E’ infatti in quelle sedi, assai più che nel rapporto bilaterale con gli altri Stati, che è possibile affrontare positivamente le questioni che incidono sul presente e soprattutto sul futuro degli italiani. La globalizzazione porta con sè rischi e opportunità comuni ad intere aree geopolitiche, non solo per i singoli stati nazionali. Ne consegue che la nostra politica estera deve individuare le macro aree in cui essere protagonisti al fine di ottimizzare in sede multilaterale la sua azione: al primo posto vi è il Mediterraneo.

L'Unione Europea vive oggi una serie di crisi geopolitiche di tale gravità da comprometterne la tenuta. Dalla fine del momento bipolare in avanti mai il progetto della “casa comune” si era trovato a fronteggiare contemporaneamente molteplici situazioni di conflitto (sia militare che socio-politico) ai propri confini: dall'Ucraina alla Libia, dalla FYROM alla Turchia, l'Unione Europa appare sempre più una “fortezza Europa” chiusa su se stessa e sempre meno capace di “affermare la sua identità sulla scena internazionale, segnatamente mediante l'attuazione di una politica estera e di sicurezza comune”, come recita il Trattato di Maastricht. Qual è la sua lettura geopolitica degli eventi in corso?


L’UE è al bivio: o riesce davvero, specie nella politica estera e di sicurezza (ma non solo) ad assumere “una sua identità sulla scena internazionale” oppure rischia di regredire, se non di dissolversi. Viene oggi al pettine il nodo rappresentato dal fallimento del tentativo di redigere una sorta di Costituzione europea: la Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing approvò un testo ma il referendum francese e olandese lo bocciarono. Da allora il pilastro dell’architettura istituzionale dell’UE è la riunione dei Capi di stato e di governo assai più che la Commissione o il Parlamento di Strasburgo. Chi sia mister o lady PESC non importa: oggi la Mogherini, come ieri la Ashton, è a capo di un “ministero” che di fatto non esiste. Nè ci sono segnali confortanti circa la volontà di porre rimedio alla situazione; ed è paradossale che tutti si interroghino sulle conseguenze per l’UE della possibile uscita della Grecia dall’eurozona e quasi nessuno rifletta sul rischio ancora maggiore che le istituzioni europee corrono, in termini di credibilità, se continueremo ad essere inesistenti ogni volta che c’è una crisi politico militare ai suoi confini.

Lo stallo dei negoziati di adesione all'UE con la Turchia, il fallimento del Processo di Barcellona per il dialogo con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, l'irrilevanza del Partenariato Orientale. Viceversa, assistiamo a ottime relazioni dell'UE con la Repubblica Popolare Cinese, il Brasile e altre economie emergenti importanti ma lontane. Ora, possiamo chiederci provocatoriamente se proprio l'Unione Europea, fondata sui principi di collaborazione, dialogo e mantenimento della pace, non sia diventata in realtà un agente destabilizzatore?

Diciamo che l’UE è divenuta presbite: vede bene ciò che è lontano ma è miope, quasi cieca, quando si tratta di ”leggere” ciò che le è più vicino. La incapacità di sviluppare una politica estera e di difesa comune nella sua area geografica e di influenza ha fatto si che l’UE guardasse altrove, sia perché nessuno chiede a Bruxelles di esercitare un ruolo nel “mantenimento della pace” in Cina o Brasile sia perché gli interessi nazionali dei paesi UE tendono a convergere e non a contrapporsi quando si relazionano a macro realtà continentali. 

“Povera Germania, troppo grande per l'Europa, troppo piccola per il mondo”. Le parole di Henry Kissinger risultano quanto mai attuali. Quali sono le chiavi per un dialogo proattivo con una Berlino che vive quasi un “momento unipolare”, leader europeo suo malgrado e affiancata da una Francia indebolita?

Aldilà della disputa ricorrente tra chi sostiene che Berlino vive “un momento unipolare” per sua precisa scelta e volontà e chi pensa che sia costretta a viverlo per il venir meno dei partners ( la stessa Francia è ondivaga al riguardo), credo che un paese come il nostro possa e debba fare di più nel rapporto con la Repubblica federale tedesca. Ad esempio sostenere il tentativo di rafforzare il governo dell’euro zona tramite politiche economiche e fiscali quanto più omogenee possibili da parte dei paesi che hanno rinunciato alla sovranità monetaria. L’Europa a due velocità è già una realtà di fatto non è più una prospettiva sgradita. Se è quasi inevitabile, pena l’esplosione dell’Unione, che sorga un “ direttorio” Roma deve farne parte proprio nell’ottica di come meglio tutelare il nostro legittimo interesse nazionale. E’ altresì ovvio che ciò comporta politiche economiche e sociali tutt’altro che facili da adottare sul piano interno, ma questo è un altro discorso.

Il nostro Ministero degli Esteri qualifica come “relazioni privilegiate” i rapporti con la Russia, un “ partenariato strategico basato su interdipendenza e interessi comuni”. Nella fase attuale, quali sono secondo lei gli interessi comuni tra i due Paesi e come giudica nel merito la linea tenuta dalla Farnesina riguardo il dossier Ucraina? Se le sanzioni risultano utili – se non necessarie - nel caso di Paesi quali Bielorussia, Iran e Corea del Nord, lo stesso può dirsi nel caso di Mosca?

La nostra posizione verso Mosca dopo l’invasione militare della Crimea era inevitabile alla luce del “ fronte della fermezza” che univa Washington e Londra a Parigi, Berlino e Varsavia. Avessimo privilegiato il nostro interesse, specie in materia di approvvigionamento energetico, rispetto al dovere morale di sanzionare una invasione con i carri armati ( perché di questo si è trattato) avremmo tradito la ragione stessa della nostra collocazione nell’ambito occidentale ed europeista. Ciò detto, oggi si tratta soprattutto di contribuire a definire una posizione comune dell’UE non solo rispetto a Putin ma anche rispetto al rischio, sempre più reale, del ritorno di una contrapposizione strategica e di fondo tra Mosca e Washington. E in questo contesto, molto più ampio delle sanzioni economiche, che occorre muoversi come ha lucidamente esortato a fare qualche giorno fa il presidente Napolitano. E l’Italia deve essere attiva in sede europea perché ciò avvenga.

Presidente, soffermiamoci sulla sponda sud del Mediterraneo. Dapprima il Processo di Barcellona, in seguito l'iniziativa incolore dell'Unione per il Mediterraneo a guida francese, l'intervento franco-inglese in Libia coperto dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza n.1973, la spinta alla rivoluzione in Tunisia. Eliminando Gheddafi e Ben Ali i francesi, con l'assenso anglo-americano e il non intervento tedesco, hanno di fatto chiuso i conti con i due dittatori e imposto nuovamente la propria influenza in Nordafrica. Cosa non ha funzionato nella politica estera italiana?

Forse l’intervento anglofrancese contro Gheddafi, fortemente voluto da Parigi per affermare il proprio ruolo nel Nord Africa, non sarebbe stato possibile se tutto l’Occidente avesse tratto insegnamento dalla guerra in Irak e non avesse travisato la realtà in occasione della cosiddetta primavera araba, ed in specie della caduta di Mubarak. Eliminare un dittatore non significa, specie nel mondo arabo mussulmano, instaurare automaticamente una democrazia, perché questa o sorge dal basso, dalla società, oppure rischia di morire nella culla, soffocata da tribalismi e integralismi. Può essere “politicamente poco corretto “ affermarlo, ma personalmente non ho dubbi nel dire che se in Egitto non ci fosse stato il colpo di stato militare dopo la vittoria di Morsi, oggi quel paese sarebbe ridotto come la Libia o nella ipotesi migliore non sarebbe di certo in prima fila contro i tagliagole dell’ISIS… E’ risaputo che il governo Berlusconi subì l’intervento militare a Tripoli e non ebbe alcun ruolo nel promuoverlo, anzi. Si può obbiettare che non fece nulla per impedirlo, ma è purtroppo vero che nessuno poteva fare nulla contro quello che sembrava il… vento della storia.

La conseguenza più evidente delle dinamiche nordafricane è la ripresa dei flussi migratori. Quali sono le soluzioni di politica interna che il nostro Paese dovrebbe intraprendere? E' opportuno rimettere mano alla legislazione sul tema - la legge Bossi-Fini è ancora attuale? Le proposte in discussione in sede comunitaria la convincono?

L’esodo biblico di centinaia di migliaia di migranti verso L’Europa, e quindi in primo luogo verso l’Italia, riguarda in maggioranza uomini e donne che provenendo da aree ( Libia, Siria, Corno d’Africa, Africa Subsahariana) in cui sono in corso guerre e carestie chiedono il diritto d’asilo per ragioni umanitarie. La legge Bossi Fini regola la presenza in Italia del migrante che viene da noi per lavorare (permesso di soggiorno subordinato al contratto di lavoro) e non è applicabile ai richiedenti asilo, ai profughi. Inoltre è ormai risaputo che il Trattato di Dublino II ( il richiedente asilo deve rimanere nel paese UE che per primo lo accoglie e lo identifica) alimenta egoismi nazionali di molti paesi dell’Unione che non vogliono farsi carico di un dovere di solidarietà che oggi grava in particolare sulle spalle dell’Italia. Sulla tragedia della immigrazione di massa l’UE sta perdendo ogni residua credibilità, balbetta e fugge di fronte alle sue responsabilità. Ma va anche detto che purtroppo la politica italiana sempre in campagna elettorale e incapace di coesione anche di fronte alle emergenze più gravi, si mostra inadeguata. Il nostro interesse nazionale avrebbe voluto che fossero tutte le nostre istituzioni a sostenere gli sforzi del governo a Bruxelles per 1) condurre operazioni di polizia internazionale contro gli scafisti 2) allestire centri di raccolta in Africa dove riconoscere agli aventi diritto lo status di rifugiato 3) distribuirli proporzionalmente nei paesi dell’Unione. Purtroppo sappiamo che così non è stato e non è.


sabato 16 maggio 2015

The Importance of Leadership for Asia's Development














ASIA'S  DEVELOPMENT has been so successful that it has been labelled a “miracle.” However, if this is true for economic growth, the picture looks far less impressive if you look at other dimensions of economic development. That is why a return of leadership is needed.

Looking at Asia’s phenomenal economic growth figures since the second half of the 20th century, it becomes easy to understand why international observers have used the word “miracle.” OECD economist Kichiro Fukasaku rightly wrote on the emergence of East Asia as the third growth pole of the world economy. From 1975 to 2000, East Asia grew faster than any other region in the world, attaining average per capita growth rates of 6 percent a year. One example gives the picture of the so-called miracle: South Korea, only as rich as Ghana in 1960, is now a OECD member posting a GDP per capita at purchasing power parity higher than Italy.

Which factors contributed to the Asian miracle? Of course, there were many the drivers behind it, such as higher level education, huge saving rates and the crucial role played by the United States as regional security provider and a huge market for exporting goods. Nonetheless, what really distinguished the Asian economic path from the rest of developing countries was leadership. Bright-minded entrepreneurs and forward-looking politicians worked not only to seek personal profit, rather they were committed to create an economic renaissance for their nations. From Sony’s Akio Morita to Wipro’s Azim Premji, from Singapore’s Lee Kuan Yew to Korea’s Park Chung-hee, inspiring leaders were the backbone of the early stages of each Asian economy.

Think about it. Why did Indonesian PhD scholars educated in the U.S., the so-called “Berkeley Mafia,” who understood and got to know Western democratic values, decide to work under Suharto and accepted his authoritarian stance? Why did Albert Winsemius, a Dutch economist and U.N. official, join Lee Kuan Yew despite having such a different background and understanding of personal freedom and democracy? For there was a genuine, contagious dynamism born out of a common vision: increasing the nation’s general level of prosperity.

Now, a strong economy is not sufficient for national development. John West, Asian Century Institute Executive Director puts it clearly: “We need the government to provide us with infrastructure like water, sanitation, roads, bridges and so on. We also need the government to provide at least basic health and education services”.

Asia is at a crossroads, for it eventually reached a “miracle of riches,” not yet a “miracle of life,” as Charles Kenny described it in his book Getting Better. Overall Asia’s development experience has been one of success and an example for other parts of the world. However aspects of development other than economic growth, from income inequality to social inclusion to rapid urbanization, have not achieved comparable results. So far only one Asian country, namely Singapore, has been ranked among the top ten on the UN Human Development Index. In terms of improving quality of life, the Middle East and North Africa did relatively much better than East Asia in the last 50 years. Publications by the Asia Development Bank have shown that inequality has been on the rise throughout East Asia during the 1990s-2000s. Even Japan, a country where a relatively equal income distribution was a trademark of postwar economic development, has seen rising income inequality among working age people.

As Justin Lin puts it, economic development is a “dynamic process” that “requires industrial upgrading and corresponding improvements in ‘hard’ and ‘soft’ infrastructure at each level.” Along this process ― Lin argues ― governments should put in place policies aimed at “facilitating industrial upgrading and infrastructure improvements,” which means matching ongoing economic growth with the other dimensions of development.

At the beginning of the miracle, leaders across the region well understood the paramount importance of rapid growth to get away from extreme poverty conditions and climb the technology ladder. At present, Asian political and economic actors should equally realize that for sound economic growth to be maintained in the long run, the other dimensions of economic development must be taken into consideration and addressed.

2015 is the year set by the UN to reach the Millennium Development Goals (MDGs). Asia achieved perhaps the most pressing goal, the halving of poverty, with eight of the 37 countries in the region moving from low to middle income status between 2000 and 2011. The whole region needs to continue working to achieve the MDGs, from the reduction of child mortality to the promotion of social inclusion. Leadership is needed again.

References 

Overview: Miracle, Crisis and Beyond OECD 2004
Asia’s Economy – No Miracle! Asian Century Institute 2014

New Structural Economics: A Framework for Rethinking Development The World Bank 2010

Getting globalization right: the East Asian Tigers 

venerdì 27 marzo 2015

Cos'è la super-banca cinese che da fastidio agli USA













articolo di Giampaolo Tarantino

CHI SEGUE  l’economia internazionale ha dimestichezza con gli acronimi come Bce, Bei, Fed, Ttip, Adb.  Adesso bisogna fare i conti con una nuova sigla: Aiib, che sta per Asian Infrastructure Investment Bank. È una super banca per lo sviluppo guidata dalla Cina, nata nel 2013, ma formalmente fondata lo scorso 24 ottobre. Con un bilancio da 100 miliardi di dollari (è stata recentemente ricapitalizzata) l’Aiib è concepita per attrarre investimenti in infrastrutture relative a settori come trasporti, energia e telecomunicazioni: «Di fatto la Aiib è il primo tentativo serio di sfida cinese agli Stati Uniti in quanto potenza asiatica nel periodo post-ideologico, ed è un tentativo portato avanti usando la leva finanziaria, non militare» , spiega a Linkiesta Emanuele Schibotto, ottore di ricerca in geopolitica economica, direttore per lo sviluppo dell’Asian Century Institute, centro di analisi e ricerca basato a Toronto e membro del centro studi Geopolitica.info.

Negli Stati Uniti la considerano già la versione cinese della Banca mondiale, antagonista dell’istituto di Washington e dell’Asian Development Bank guidata dal Giappone ma fortemente sponsorizzata dagli americani. Come rivelato dal Financial Times, tra i soci fondatori ci saranno anche Italia, Germania e Francia (prima ancora era toccato alla Gran Bretagna). Il Ministero dell’Economia ha successivamente confermato con un comunicato l’adesione dell’Italia. Nella nota si spiega che questa «banca d’investimento che lavorerà con le banche multilaterali di sviluppo e di investimento esistenti può svolgere un ruolo di rilievo nel finanziamento dell`ampio fabbisogno infrastrutturale dell’Asia».

Il giornale della City rimarca anche l’antipatia americana nei confronti della super banca costruita dai cinesi. Washington non gradisce che le nazioni occidentali entrino nella Aiib perchè l’istituto fondato a Pechino lo scorso anno e «lanciato dal presidente cinese Xi Jinping è uno degli elementi di un’offensiva più ampia di Pechino per creare nuove istituzioni economiche e finanziarie che ne accresceranno l'influenza internazionale». Il segretario del Tesoro statunitense, Jacob Lew ha pesantemente criticato la decisione dei partner europei. «La Aiib aderirà agli elevati standard di cui si sono dotate le istituzioni finanziarie internazionali? Tutelerà i diritti dei consumatori, l’ambiente, gestirà con rigore i casi di corruzione?», ha detto nel corso di una audizione alla commissione Servizi finanziari della Camera dei rappresentanti Usa.

In America rimproverano alla Casa Bianca di essere troppo morbida di fronte all’espansione economica architettata da Pechino: «L’amministrazione Obama sostiene di non opporsi alla creazione della Aiib ma pensa che ci siano troppe domande senza risposta per poter accettare l’espansione di un progetto cinese che rischia di erodere la supremazia americana», sostiene Jonathan Pollock, senior fellow presso il Brookings Institution (il più autorevole think thank americano sulle questioni di politica estera).

Jin Liqun, il funzionario cinese che guiderà la banca, ha sempre detto che la Aiib rispetterà gli standard simili a quelli che governano la Banca Mondiale ma è chiaro che i timori degli Usa sono ben altri. L’adesione dei principali paesi europei a una banca di sviluppo che sfida apertamente l’influenza finanziaria globale americana esercitata attraverso la Banca Mondiale e l’Asian Development Bank preoccupa gli americani che già devono fronteggiare la perdita di peso specifico all’interno del Fondo monetario internazionale: «La Cina ha vinto un round nella rivalità strategica con gli Stati Uniti», ha scritto The Economist.

Gli americani negano di non aver fatto pressioni contro l’Aiib e sostengono di essersi limitati a sottolineare che il progetto a guida cinese dovrà rispettare gli standard internazionali di trasparenza, affidabilità e sostenibilità. Tuttavia è innegabile che le loro rimostranze servano a mettere pressioni ad Australia, Giappone e Corea del Sud, alleati degli Usa che potrebbero essere attratti dalla possibilità di diventare soci fondatori della Aiib. Per il settimanale britannico è chiaro che gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni sugli alleati dell’Asia- Pacifico.

Per Schibotto, «nel momento storico che vede Washington concentrare la propria attenzione sul “pivot” asiatico, il Governo statunitense riesce a condizionare i suoi alleati asiatici più importanti (Giappone, Corea del Sud e Australia) ma allo stesso tempo perde il polso degli equilibri in Europa, dove proprio l'alleato storico (Gran Bretagna) e l’alleato principe nel periodo post-1945 (Germania) si dimostrano “revisionisti”. Gli Stati Uniti stanno forse capendo ora quanto Pechino sia oramai presente in Europa».

The Economist, invece, osserva che la decisione cinese di creare una nuova banca multilaterale piuttosto che aumentare la propria influenza in quelle già esistenti riflette l’esasperazione per la lentezza della riforma della governance economica globale e la voglia di mettersi in proprio per gestire da soli lo sviluppo dell’area economicamente più dinamica del mondo. Osserva Schibotto che «la Aiib risponde ad una esigenza estremamente concreta. La necessità di finanziare il processo di modernizzazione del quadrante asiatico. Stiamo parlando della possibile transizione, per oltre un miliardo di asiatici, dalle fasce più povere alla classe media nei prossimi tre o quattro decenni». Si tratta di un’operazione economica colossale, che, «semplicemente, Banca Mondiale e Asian Development Bank non sono in grado di sostenere,  da sole, uno sviluppo economico di questa entità. L'efficacia e la bontà dell’iniziativa di Pechino si nota dalla partecipazione interessata di Paesi che vantano ottime relazioni con gli Usa come  Singapore e Filippine su tutti».

Articolo pubblicato su L'Inkiesta il 19.03.2015 e reperibile a questo link


sabato 28 febbraio 2015

Italy at a crossroads














ITALY is experiencing a crisis of confidence that is both domestic and international. However, don’t think this is a game over, for the country has still huge potential. It has been a year since Matteo Renzi took over as Italy’s Prime Minister, the 22nd of February 2014. From 2011 to 2014, the country found itself in the midst of another political crisis which clearly affected its credibility among international investors.

On November 2011, following Berlusconi’s resignation, the economist and former EU commissioner Mario Monti became Prime Minister and formed a government of technocrats, which would navigate until the next general elections in February 2013. Enrico Letta would then step in as Premier, but would resign not even a year later, as he lost the fight against Renzi within his own party.Since then Mr. Renzi, who is the former mayor of Florence and the youngest national leader in Europe, sought to deal with the difficult task of implementing the much-needed economic reforms demanded by the European Union and the International Monetary Fund, so to restore market confidence and revamp the economy (real GDP will post a poor 0.4 percent of growth in 2015 and 0.8 in 2016, according to the IMF).During the past 12 months Renzi’s cabinet has been committed mainly to boost job creation and growth, improving domestic competition and easing the burden of burocracy which hinders an otherwise dynamic private sector. “If fully and effectively implemented, these reforms could contribute to improving competitiveness and addressing some long-standing obstacles to growth”, wrote the European Commission in a recent paper.

True, Italy is under deep and close scrutiny from international markets – and that is just right. Unemployement is over 12 percent, GDP growth is sluggish and the economy is still 9% below the peak it reached before the crisis unfolded. In its latest report the OECD wrote that ”the lack of recovery from recession is leading Italy’s income per capita to fall further behind the leading OECD economies. The productivity preformance continues to lag and labour force participation remains weak”.Yet, it would be a mistake to consider the country as a dead man walking, for the current crisis belongs primarily to the political realm. The recovery of the domestic economy could have already been boosted had the necessary reforms been implemented earlier. This is to say that the changing of the political landscape for the better should unleash the potential Italy still has.

The economic significance of the Belpaese still is quite remarkable. Italy is the third largest economy of the eurozone, the 8th largest in the world by nominal GDP. It is the 11h world’s largest exporter, generating around 3 percent of world merchandise trade. Italy has the second largest industrial output of Europe behind Germany. The UNCTAD/WTO 2009 Trade Performance Index places Italy second among the G20 countries, just behind Germany. “Made in Italy” goods – from fashion to food – are masterclass, worldwide renowned products.One of Italy’s biggest economic troubles – together with tax evasion and hidden economy, is its massive public debt (around 132 percent of GDP, the second-biggest public debt as a percentage of GDP among all the euro countries). However, the percentage of public debt being held by foreigners is above France and Germany and its private debt is one of the lowest among developed countries whereas household wealth is one of the highest. What is more, if you take out interest payments from the debt equation than you’ll discover that Italy holds a primary surplus. As a matter of fact, Italy’s primary surplus is among the highest in the world and has been the most stable among EU member States in the past 20 years. Italy is still a rich country, with its people being the most precious strength.

Italians are creative by nature, as the latest Government advertising campaing showscases: from the helicopter to the radio to the Google’s search algorithm, Italians contributed (and still do, often outside Italian borders) to some of the most important inventions of humankind. During the last decade not enough attention has been given to the needs of younger generations – the inventors of tomorrow. According to the National Statistics Bureau, youth unemployement is around 42 percent whereas the Neet (Not in Education, Employment or Training) population counts more than 2 million people. This means losing out the contry’s brighest and most dynamic minds. Improving these stats, Mr Renzi said, is the number one priority of his government.
 
With the recent election of the newly elected president, Sergio Mattarella, Italy has a genuine chance for a reset. Not only has the country a Prime Minister who is determined to hold office until the next scheduled elections planned in 2018 – hence bringing about much-needed political stability. It can count on a president with the highest moral values, a former constitutional court judge and an expert politician who considers the fight against organized crime and corruption as absolute priorities.

Reference:

giovedì 19 febbraio 2015

Singapore's role in the Asian Century: an interview with Kishore Mahbubani



















EMANUELE SCHIBOTTO, ACI Director for Development, has shared with us an interview he and Gabriele Giovannini did with leading Singaporean intellectual, Kishore Mahbubani.

Your most recent books, from The New Asian Hemisphere to The Great Convergence, point out the need for the West to understand the modernization and the renaissance of Asia. What are the aspects and facets of the Asian Century that the EU and the US still do not get so far?

KM.

Most leading minds in the West find it hard to accept this simple but painful historical fact: the last two centuries of Western domination of world history have been a major historical aberration. From the years 1 to 1820, the two largest economies of the world were those of China and India. It was only in the last 200 years that Europe and North America took off.

If you look at the past 200 years of world history against the backdrop of the past 2,000 years of world history, the past 200 years have been a historical aberration. All historical aberrations come to a natural end. Therefore, the Asian century is irresistible and unstoppable.

Unfortunately, many Western minds continue to believe that the Asian century will not happen. What is the proof of this? If Western minds accepted that the return of Asia is unstoppable, they would restructure global institutions to accommodate the rising Asian powers.

Instead, the UK and France refuse to give up their United Nations Security Council seats in favour of India. And the US Congress continues to block the reform of the IMF to allow larger voting shares for the new Asian powers, including China. This reluctance to restructure the global order is a clear sign that the West refuses to accept the reality of the Asian century.

Is Singapore a model for other Asian countries in terms of foreign policy? Is it poised to play a crucial role in the next decades of convergence? How?

KM.


Singapore is too small a country to be a model for other Asian countries, most of which are much larger than Singapore. Nonetheless, the best practices that have been adopted by Singapore are relevant for other Asian countries, many of which have studied Singapore closely.

In my book, The New Asian Hemisphere, I explained that the Asian countries are succeeding because they have finally understood, observed and implemented the principles of seven pillars of Western wisdom, namely: free market economics, science and technology, meritocracy, pragmatism, a culture of peace, the rule of law, and education. Now that other Asian countries are following Singapore in implementing these pillars of Western wisdom, it is not surprising that more and more Asian countries are succeeding.

In terms of foreign policy, Singapore has been very careful to pursue a realistic, pragmatic and non-ideological foreign policy. While this has not served as a model for other countries, it has enabled Singapore to win friends in all corners of the world. Singapore is also very strong supporter of the United Nations and multi-lateral institutions.

As former Prime Minister Lee Kuan Yew said, “If there were no international law and order, and big fish eat small fish and small fish eat shrimps, we wouldn't exist.” Hence, even though Singapore is a good friend of the US, it has not hesitated to disagree with the US in multilateral fora.

Over time, we hope that the US will see the virtue of supporting multilateral institutions as well. This is why I begin my book, “The Great Convergence: Asia, the West and the Logic of One World”, by quoting from a speech by Bill Clinton in Yale in 2013, where he told his fellow Americans the following: “If you believe that maintaining power and control and absolute freedom of movement and sovereignty is important to your country’s future, there’s nothing inconsistent in that [the US continuing to behaving unilaterally]. [The US is] the biggest, most powerful country in the world now… But if you believe that we should be trying to create a world with rules and partnerships and habits of behaviour that we would like to live in when we’re no longer the military political economic superpower in the world, then you wouldn’t do that. It just depends on what you believe.” Clearly, Bill Clinton was calling on his fellow Americans to support multilateral rules and processes. So far, they have not heeded his advice.

Would you define Singapore as a regional power?
KM.

Singapore is certainly not a regional power. Its land territory is one of the smallest in Southeast Asia. It has only 700 square kilometres, whereas most Southeast Asian states have hundreds of thousands of kilometres of land. Its population is also very small. It has only five million people. Hence, Singapore will never be a regional power.

Nonetheless, Singapore has been able to exercise regional influence by generating good ideas. For example, Singapore noticed that while there were strong Trans-Atlantic institutions like NATO and OSCE and strong Trans-Pacific institutions like APEC and EAS, there were no strong institutions linking Asia to Europe. This was clearly a missing link.

This is why the former Singapore Prime Minister, Goh Chok Tong, proposed the idea of an Asia-Europe Meeting (ASEM). I was then the Permanent Secretary of the Foreign Ministry of Singapore, and I made several trips to Europe to try and persuade Europe to adopt this idea. Fortunately, France was the first country to support this idea. Since then, ASEM has taken off. ASEM has also established the Asia-Europe Foundation (ASEF) in Singapore.

Singapore has also produced some of the most thoughtful Prime Ministers and Foreign Ministers, whose speeches have been carefully studied in leading capitals. As long as Singapore keeps up this tradition of speaking frankly and candidly on regional and global issues, it could continue to have some regional influence.
Singapore won what former British Prime Minister Gordon Brown famously described as the “global skills race”. What does it mean for the country in the so called Asian Century?
KM.

PM Gordon Brown is dead right. We are globally engaged in a “global skills race”.

Fortunately, Singapore has done very well in this area. Its education system is universally admired. Its maths textbooks are used in places as distant as California, South Africa, and the Netherlands. Singapore students have done well in PISA tests and the National University of Singapore (NUS) is now ranked as the top university in all of Asia.

Yet, despite all these successes, Singapore cannot afford to rest on its laurels. New challenges are appearing. For example, technology is eliminating jobs. In a 2013 report, McKinsey points out that “the force of automation has already swept through manufacturing and transaction work, with profound impact. To put this in perspective, in 40 years of automating transaction work, in some US transaction occupations, more than half of the jobs were eliminated. ATMs took on the work of bank tellers, self-serve airline reservation systems replaced travel agents, and typists all but disappeared.”

The report estimated that by 2025, “knowledge work automaton tools and systems could take on tasks that would be equal to the output of 110 million to 140 million full-time equivalents (FTEs)… increased automation could drive additional productivity equivalent to the output of 75 million to 90 million full-time workers in advanced economies and 35 million to 50 million full-time workers in developing countries.” In short, many jobs will be lost. Singapore will need to ensure that Singaporean workers remain flexible and relevant to handle these profound shifts in labour needs.
Apart from Australia, Singapore is the only Asian country to be ranked among the top ten on the UN Human Development Index. Is the Asian Century more a matter of economic growth, rather than economic development?
KM.

Singapore is truly blessed that its founding fathers, especially Lee Kuan Yew, Goh Keng Swee, and S. Rajaratnam, did not focus only on economic development but also on human development. From day one, Singapore paid attention to the social needs of its people: from housing to health care, from education to the environment. As a result, not only did Singaporeans enjoy rapid economic development, they also enjoyed living in one of the world’s most liveable cities.

There is no doubt that many other Asian cities are studying the Singapore model of development. China has welcomed the establishment of the Suzhou Industry Park and the Tianjin Eco City, both of which are Singapore-led projects.

Since China will be producing the largest new urban population in the world, any lessons that the Chinese cities learn from Singapore will lead to better urban development for Chinese citizens. Hence, while Asian countries focused more on economic development in the early years, it is clear that more and more of them are now paying more attention to sustainable development and to protecting their environments.
Recently an agreement has been signed to set up the Asian Infrastructure Investment Bank and Singapore is among the signatory states. What do you think about the new bank from a Singaporean perspective? What do you expect from this new institution in terms of U.S.-China relations?
KM.

Asia badly needs new infrastructure. The ADB has estimated that Asia will need to invest “about $8 trillion in national infrastructure and $290 billion in regional infrastructure between 2010 and 2020 to sustain its growth trajectory”. Given this need for more infrastructure, the region as a whole welcomes China’s initiative to set up the Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB). This is why most Asian countries attended the launch in Beijing.

Unfortunately, the US misunderstood the goal of this AIIB initiative and saw it as an effort to diminish the role of US- and Japan-led regional and global banks like the World Bank and the ADB. This led to the US Treasury launching a major initiative to persuade its friends to stay away from the AIIB launch. This is why South Korea and Australia did not participate, even though it was in their national interest to do so.

This US-China rivalry is not surprising. Indeed, it would be perfectly natural to see great power competition between the US and China in the coming decades, because we are now approaching one of history’s most significant moments. In 1980, in purchasing power parity (PPP) terms, according to IMF statistics, the US share of the global GNP was 25% while that of China was 2.2% (less than 10% that of America).

But by the end of 2014, the US share will slide to 16.2%, while that of China will rise to 16.4%. For the first time in 200 years, the largest economy in the world will be non-Western. So far, the US has reacted wisely to China’s rise and we hope it will continue to do so.
  
What is your view on the planned railway between Singapore and Kunming?

KM.

The Kunming–Singapore Railway will connect China, Singapore and all the countries of mainland Southeast Asia. It is expected to increase regional economic integration and increase China's economic ties with Southeast Asia.

Singapore would benefit enormously from the establishment of this railway. Firstly, the railway will provide a cheap and efficient way for Singapore to acquire resources. Meanwhile, other countries can use it to take better advantage of Singapore’s technical expertise and entrepôt status to earn more gains from trade.

Secondly, the railway would enhance Singapore’s status as a logistics hub. Each year, the Port of Singapore has a throughput of more than 550 million tonnes of cargo. Much of it will continue to travel around the region on ships, but Singapore’s hub status will be further enhanced if some of the cargo can be distributed to Malaysia, Thailand, Vietnam, Laos and Cambodia by rail as well. This is why Singapore strongly supports this Singapore-Kunming link.

What are the most significant political, economic and cultural challenges that Singapore will face in the coming decades which in all probability will be informed by the shift of power from the West to the East?
KM.

Singapore will face extraordinary new challenges and opportunities as power shifts from the West to the East. The main geopolitical challenge it will face could arise from the rising rivalry between the US and China. We are already facing pressures from both China and the US because of our close relations with both countries.

When I spoke to a group of retired Chinese generals in Beijing last year, it was clear that they were concerned about Singapore’s close defence relationship with the US. In fact, our defence relationship is so close that American leaders and commentators have referred to us as an “ally” even though, strictly speaking, we are not treaty allies with the US.

This is dangerous, because in a crisis, American leaders may expect us to behave like an ally. However, we will not be able to take a strong pro-American stance if US-China relations sour, as 75% of the Singapore population is Chinese.

Similarly, some Americans are upset by Singapore’s close economic relationship with China. For instance, we supported the creation of the AIIB, even though the US had lobbied against it. The New York Times reported this: “One American ally has already signed up despite Washington opposition: Singapore.” If even the well-informed NYT reporter Jane Perlez is not aware that Singapore is not a US treaty ally, we will find it very difficult to navigate the expectations of both the US and China if their relationship ever sours.

However, Singapore will also have extraordinary opportunities. Just as London serviced the rest of Europe in the 19th century and New York City serviced the rest of America in the 20th century, Singapore could become the city of choice for the 21st century. Singapore is culturally comfortable with the Chinese, Indian, Islamic, and Western civilisational streams, all of which are well-represented in Singapore society.

It is the most westernised city in Asia, even compared to Tokyo, Seoul, or Shanghai. It is also the most Asian global city in the world – it is far more Asian than New York, London or Paris. It is also geographically located within 6 hours of the major cities in China and India, the biggest powers in Asia. These features make Singapore the ideal crossroads between East and West, and the best choice for an Asian “capital” in the coming Asian century.

On balance, I am very optimistic for Singapore’s future because in the first fifty years, we have put together strong physical and human infrastructure that has enabled Singapore to become a key global city on our planet. As the Asian century unfolds, no other city can benefit as much from Asia’s growth as Singapore can. Hence, great times lie ahead for Singapore.

Reference:

http://www.asiancenturyinstitute.com/international/846-singapore-s-role-in-the-asian-century