venerdì 31 gennaio 2014

Il Giappone di Shinzo Abe

Shinzo Abe, Premier del Sol Levante

















SHINZO ABE, alla guida del Sol Levante dal dicembre 2012, ha pronunciato al Word Economic Forum di Davos un discorso programmatico che traccia la sua visione di un "nuovo Giappone". Di seguito ecco i punti salienti.

La politica economica (Abenomics)

Abenomics comprende tre frecce: una politica monetaria aggressiva, una politica fiscale flessibile e uno stimolo agli investimenti privati.

Il Giappone è in procinto di liberarsi dallo spettro della deflazione cronica. Questa estate i salari aumenteranno, e salari più alti contribuiranno a generare consumi maggiori. Anche la nostra situazione fiscale ha subito un miglioramento. Il Giappone ha imboccato il sentiero del consolidamento fiscale.

Adesso che il tasso di crescita ha subito un reverse impressionante, da negativo a positivo, i tanti detrattori che ritenevano il Giappone un Paese sul viale del tramonto sono spariti quasi del tutto.

Le riforme

Il concetto che prevede l'impossibilità di attuare certe riforme è stato infranto. Il mercato elettrico verrà liberalizzato completamente; stessa sorte per il comparto dei produttori di riso. Il sistema amministrativo verrà rivisto, la burocrazia ridotta e la corporate tax scenderà del 2,4%.

Il Partenariato Transpacifico (TPP) e l'accordo di libero scambio con l'Unione Europea costituiscono pilastri centrali della mia politica economica: contribuiranno a rendere l'economia giapponese ancor più integrata con i flussi globali della conoscenza, del commercio e degli investimenti.

Riformeremo il mercato del lavoro. In un Paese dove il lavoro femminile è la risorsa meno utilizzata, ci impegniamo affinché entro il 2020 il 30% delle posizioni di leadership siano occupate da donne. Sono anche sicuro che entro il 2020 raddoppieremo la quota di investimenti esteri diretti.

L'obiettivo è rendere il Giappone una delle migliori destinazioni al mondo dove fare affari.

La politica estera

Ora che l'Asia è divenuta uno dei fulcri economici del pianeta, il Giappone è circondato da vicini che manifestano possibilità infinite: Cina, Corea del Sud, i Paesi membri dell'ASEAN, l'India, la Russia e, lungo il Pacifico, i Paesi partecipi al Partenariato Transpacifico.

L'unico modo per mantenere la pace e la prosperità nella regione risiede nel garantire la sicurezza degli spazi aerei, marittimi, cibernetici e cosmici per consentire il libero movimento di merci e persone - condizioni indispensabili per la crescita. Valori fondamentali come la libertà, i diritti umani e la democrazia devono essere preservati all'interno dello stato di diritto. Non vi è alternativa.

I dividendi che la crescita offre in Asia non devono essere sprecati in una corsa al riarmo; al contrario dobbiamo investirli in innovazione e capitale umano per incrementare ulteriormente la crescita nella regione. L'espansione militare va assolutamente contenuta perché, altrimenti, la situazione potrebbe sfuggire di mano. I budget militari vanno resi completamente trasparenti e verificabili.

Dobbiamo impegnarci nella creazione di un meccanismo per la gestione delle crisi, un canale di comunicazione tra le forze armate e un sistema di regole che promuova azioni fondate sul diritto internazionale del mare.

(La traduzione dall'inglese non è ufficiale ed è opera dell'autore)

Per approfondimenti

Articolo pubblicato da International Business Times nel blog Going Global

lunedì 27 gennaio 2014

Everybody goes to Poland











A DIFFERENZA della maggior parte dei Paesi europei, la Polonia è una economia in forte crescita, trasformatosi in pochi anni da terra di emigrazione a Paese di immigrazione.

Dal 2007 al 2011 la Polonia ha registrato una crescita reale del Pil superiore al 4.3%, ritmi di crescita “asiatici”. La crescita del Pil ha permesso un impressionante incremento del Pil pro-capite, il quale dal 2004 (anno di ingresso nell’Unione Europea) al 2010 è salito da 13.000 a quasi 20.000 euro.

Questi ultimi anni di forte sviluppo economico coincidono con un incremento delle richieste di cittadinanza e degli arrivi di stranieri. Negli ultimi due anni, le richieste di permessi di lavoro sono raddoppiate.

Per gli imprenditori italiani le opportunità economiche sono molteplici e significative: dai macchinari industriali all’alimentare, dall’automotive ai settori del lusso, le export italiane sono cresciute di oltre il 10% medio annuo dal 2005 al 2011, con un interscambio commerciale passato da 9.7 miliardi di euro a quasi 17 miliardi.

Fare business è relativamente semplice sul piano burocratico e procedurale (vedi il report Doing Business pubblicato dalla Banca Mondiale) sostenendo un rischio d’impresa minimo.

Le uniche barriere sono quelle linguistiche e culturali. Per fare affari è necessario l’inglese, ma è consigliabile avere conoscenze di polacco per poter condurre trattative di successo e non trascurare aspetti importanti della cultura polacca quali la gościnność - cioè “l’ospitalità” -  presente e diffusa anche nel mondo degli affari.

Articolo precedentemente pubblicato da maka language consulting

mercoledì 22 gennaio 2014

Come e perché la minaccia nucleare preserva la pace













L'ACCORDO SUL NUCLEARE raggiunto a fine 2013 tra Iran, Russia, Cina e le potenze europee, ora in fase di esecuzione, è l'occasione per riflettere sulla minaccia nucleare e sull'effettiva necessità di perseguire la strada della denuclearizzazione.
    
Da un lato, l’Iran accetta di non utilizzare energia e tecnologia nucleare per scopi militari, dall’altro Stati Uniti, Unione Europea e Paesi alleati eliminano le sanzioni e rimuovono l’embargo applicato nei confronti di Teheran. Questa in sostanza la sintesi dell’intesa raggiunta, la quale si basa di fatto su una convinzione: la proliferazione nucleare è un pericolo per la pace e la sicurezza internazionale e (aggiungono gli statunitensi) va contrastata a tal punto da ridurre gli arsenali nucleari a zero.

Il numero delle testate

Esaminando i dati raccolti dallo Stockholm International Peace Institute (SIPRI) e dal Bulletin of the Atomic Scientists (BAS), scopriamo che dal 1945 ad oggi sono state prodotte più di 128mila testate nucleari. Le potenze nucleari odierne (Stati Uniti, Regno Unito, Russia, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele; il BAS include anche la Corea del Nord) detengono oltre 22.400 ordigni atomici, 7.500 dei quali operativi e schierati o schierabili sul campo. Bombe atomiche pronte per l’uso.

Il pericolo maggiore

In un mondo globalizzato, avulso dalla logica bipolare, testimone di un disordine multipolare (Garton Ash), in effetti uno dei pericoli maggiori risiede nella possibilità che il club delle potenze nucleari vada ampliandosi innescando giocoforza una gara al riarmo, ma soprattutto che la tecnologia nucleare militare possa sfuggire al controllo statuale finendo nelle mani di gruppi terroristici. Durante il celebre discorso tenuto a Praga il 5 aprile 2009 il Presidente Obama dichiarava: “Dobbiamo assicurarci che i terroristi non riescano ad acquisire armi nucleari. Questa è la più immediata ed estrema minaccia alla sicurezza collettiva”. Eppure, nella sua sfida per un mondo denuclearizzato il Presidente USA non raccoglie pareri unanimi; tutt’altro.

L’equilibrio atomico


Gideon Rachman, editorialista del Financial Times, ritiene che l’equilibrio del terrore dettato dall’atomica funzioni e che un mondo denuclearizzato sarebbe un posto ben più pericoloso di quello attuale: “Nessuno può provare che sono state le armi nucleari ad aver contribuito al mantenimento della pace tra le grandi potenze dal 1945 ad oggi, ma la spiegazione più verosimile risiede nel fatto che un conflitto tra potenze nucleari sarebbe considerato troppo pericoloso”.

L’analista geopolitico Robert Kaplan è convinto che la reale minaccia di guerre atomiche circoscritte possa risultare efficace per mantenere la pace e la sicurezza collettiva nel mondo attuale.

La strategia americana

Secondo Jack David, membro del Council on Foreign Relations, il processo di denuclearizzazione a guida statunitense risulta di fatto fallimentare, non essendovi prove empiriche che ne dimostrino l’efficacia. Inoltre, osserva David, l’arma nucleare è usata dagli Stati come strumento di difesa e non solo di mero attacco: “È il caso dei 31 Stati protetti dall’ombrello nucleare statunitense – gli Stati Uniti si sono impegnati a mantenere una capacità nucleare e ad usarla per difendere altri Paesi. Molti dei Paesi sotto l’ombrello statunitense hanno rinunciato allo sviluppo di proprie armi nucleari fintanto che la deterrenza adottata da Washington permane disponibile e credibile”.

Dibattito aperto

La minaccia nucleare è un utile strumento di deterrenza, anche nell’attuale configurazione del sistema internazionale, oppure è divenuta essa stessa fonte di insicurezza globale? Un mondo senza armi nucleari sarebbe davvero più sicuro? Il dibattito è aperto. Nel frattempo, vediamo l’Iran barattare la rinuncia all’atomica militare con l’inclusione nel flusso economico globale.

Articolo precedentemente pubblicato da Formiche.net

venerdì 17 gennaio 2014

Energy security: one of Asia's top priorities


Seoul, South Korea


ASIA'S HYPER-GROWTH economic pace is at risk should the region not cope with the huge energy challenge it faces in the coming decades, writes the Asia Development Bank (ADB) in a recent report.

According to ADB, Asia will account for 44% of global GDP by 2035 but the region’s share of global energy use is projected to increase to 51% . This means that the greatest challenge for Asia countries will not be posed by keeping a high economic growth, rather it will come from the ability to create a sustainable energy mix.

The ADB report sets out concrete measures that states necessarily need to undertake to cope with the imperative of energy security. Those states that will not fully understand what is at stake are doomed to reconsider their future economic prosperity.

Assuring energy independence. As the mix of primary sources (coal, conventional natural gas and nuclear) will not satisfy Asia’s growing thirst for energy, imports of oil will increase esponentially -  with volumes tripling by 2035. This will leave the region even more vulnerable to external energy shocks.

Assuring environmental sustainability. In 2010 the World Health Organization found 34 of the world’s 57 most polluted cities in Asia. Now, with Asian economies growing at consistent pace but failing to overhaul their energy mix oil, gas and highly toxic coal consumptions will skyrocket and will make Asia the world's largest polluter by 2035 – contributing to nearly half of global carbon dioxide (CO2) emissions.

Ensuring accessible and affordable energy. Today 628 million Asians do not have access to  electricity – nearly half of the world’s people without electricity. Inclusive growth means delivering broader access to electricity and cooking fuels to the poor so to reduce health and environmental risks and enable the delivery of social services.

Eliminating consumer subsidies. Most Asian countries provide some form of subsidy to offset harm to welfare – they account more than 2 % of GDP in India, Indonesia and Vietnam and more than 4% in Pakistan and Bangladesh. However, the very same consumer subsidies end up artificially reducing the price of energy and thus encouraging overconsumption. The problem is, subsidies in developing Asia are on the rise.

Investing on smart urbanization. Smart cities – cities which combine clever planning and design - can deliver significant environmental and energy savings. Rapid transportation systems like bus mass transit systems in continental China and subways in India help lower energy use and improve the environment and quality of life whereas well-designed communication and control systems can help consumers to maximize their efficient use.

Expanding sustainable energy. The energy mix must include a much higher share of renewables. Tough renewable sources find it hard to be cost-competitive with the fuels they seek to replace, in the long run economic benefits garnered from a large-scale use is believed to outweigh short-term costs.

Creating a pan-Asian energy market. The promotion of regional sinergies would provoke two meaningful results. One the one hand, it would be a driver for regional co-operation, on the other it would have a multiplier effect on energy savings. Let's take the Mekong region - it is estimated that the implementation of  cooperative programs could bring up to $ 14 billion of savings in 20 years.

Developing intellectual capital. As the report rightly points out, a modern energy sector will come about only if the knowledge base is there to support it. It is of paramount importance for Asia to broaden its intellectual capital to better support its physical investments in energy.  


References

- Asian Development Outlook 2013, Asia's Energy Challenge, Asia Development Bank (2013)

Article previously published on Asian Century Institute

lunedì 13 gennaio 2014

Xi Jinping, un profilo













NELL'ULTIME DECADE la Repubblica Popolare Cinese (Rpc), sotto la guida di Hu Jintao (presidente) e Wen Jiabao (primo ministro), ha vissuto un incessante, spettacolare processo di modernizzazione, in grado di proiettarla tra le grandi potenze del 21° secolo. Tuttavia, questo sviluppo economico accelerato ha comportato l’emersione di criticità tipiche, quali l’accresciuta disuguaglianza economica, elevati tassi di urbanizzazione, diffuso inquinamento ambientale.

La quinta generazione di leader, eletta dal Partito comunista cinese (Pcc) a conclusione del 18° congresso nel novembre 2012, amministrerà una Cina senz’altro più ricca e più potente a livello globale, ma dovrà altresì confrontarsi con una gestione interna di ordine politico, economico e sociale sempre più problematica. Timoniere del nuovo vertice di governo sarà Xi Jinping, destinato verosimilmente a guidare il paese per il prossimo decennio.

A seguito del Congresso, Xi Jinping ha assunto contemporaneamente la Segretaria del Pcc e la direzione della Commissione militare centrale (una novità rispetto al passato), nonché la presidenza della Scuola centrale del Partito. Nel marzo 2013 prenderà formalmente il posto di Hu Jintao alla guida del paese; al suo fianco siederà Li Keqiang, il quale andrà a sostituire Wen Jiabao come capo del governo.

Primo politico di vertice ad esser nato con il Partito comunista già al governo, Xi Jinping si è costruito negli anni (con merito e abilità politica) una reputazione come promotore delle riforme economiche e sostenitore della lotta senza quartiere al fenomeno corruttivo.

Nato nel 1953 nella provincia dello Shaanxi, una delle culle della civiltà cinese, il futuro leader cinese ha vissuto un’infanzia dorata in virtù dei privilegi concessi ai ‘principi rossi’, i figli dei gerarchi del Partito.

Jinping è infatti figlio di Xi Zhongxun, una delle figure di riferimento della prima generazione di leader comunisti: combattente al fianco di Mao durante la rivoluzione, personaggio scomodo dalle alterne fortune politiche, cui viene attribuita l’istituzione delle Zone economiche speciali negli anni Ottanta.

Fino ai sedici anni di età Xi vive a Pechino, all’interno del plesso residenziale destinato all’élite del Partito. Tuttavia, nel 1969 si trasferisce nello Shaanxi, subendo il trasferimento del padre, bollato come nemico della rivoluzione e spedito al confino rurale. È in questo periodo – lungo sette anni – che Xi inizia a impostare le basi della propria carriera politica, muovendosi all’interno della sezione locale del Partito, della quale diventa segretario nel 1974.

Nel 1975 inizia gli studi presso la Tsinghua University di Pechino, dalla quale uscirà nel 1979 con una laurea in ingegneria chimica. Successivamente, per tre anni lavora al ministero della Difesa (probabilmente in qualità di assistente di Geng Biao, all’epoca vicepremier e ministro della Difesa). Si tratta di un incarico prestigioso, forse ottenuto grazie alle conoscenze del padre, all’epoca riabilitato dopo la morte di Mao e la contestuale salita al poter di Deng Xiaoping.

Nel 1982 Xi lascia Pechino ed inizia un’esperienza di governo nella provincia di Hebei, diventando segretario del Partito. Una decisione, questa, che può essere interpretata come un tentativo di screditare l’immagine di ‘principe rosso’ e coltivare una carriera politica irreprensibile, basata anzitutto sul merito e il duro lavoro.

Nel 1985 viene nominato membro del Comitato permanente nonché vicesindaco di Xiamen, nella provincia del Fujian, di cui diventerà governatore nel 2000. Della sua esperienza in qualità di governatore è rilevante soprattutto la sua gestione dei rapporti con la vicina Taiwan: nei confronti di Taipei Xi Jinping ha applicato in maniera ferma la ‘one China policy’, operando però all’interno di una cornice cooperativa attraverso il rafforzamento dei rapporti economici (le buone relazioni attuali possono essere ricondotte all’eredità dell’amministrazione Xi).

La promozione, nel biennio 2002-03, a governatore pro tempore e segretario del Partito dello Zhejiang, popolosa e prospera provincia costiera, è da leggere come un ulteriore attestato di stima da parte dei vertici del Pcc.

Il 2007 è l’anno che catapulta Xi nell’olimpo dei notabili del Partito allorché assume la direzione della segreteria a Shanghai: lì viene chiamato per risanare l’immagine del gruppo dirigente, colpito da un pesante scandalo di corruzione. Ricopre tuttavia questa carica per breve tempo, poiché già nell’ottobre dello stesso anno viene eletto tra i nove membri del Comitato permanente dell’ufficio politico del Pcc (Politburo), l’organo politico più importante del Partito. L’elevazione a componente del Politburo è il preludio alla promozione a vicepresidente, che avviene l’anno seguente.

Dal primo discorso pronunziato in qualità di segretario generale emergono le prerogative che guideranno l’azione politica di Xi Jinping: diminuire la disuguaglianza economico-sociale; aumentare la sicurezza sociale; intensificare la lotta alla corruzione, soprattutto interna al Partito; continuare nel rafforzamento internazionale dell’immagine nazionale – dal potenziamento della sfera di influenza nel quadrante asiatico al mantenimento di un rapporto paritario con gli Stati Uniti.

Articolo pubblicato in Atlante Geopolitico 2013 per Enciclopedia Treccani

sabato 11 gennaio 2014

A cosa serve l'Unione Europea?

Nascita delle Comunità Europee, Roma 1957

ULRICH BECK, docente di sociologia all'Università di Monaco e alla London School of Economics, ha rilasciato un'interessante intervista nella quale fornisce la sua risposta ad una domanda che ci poniamo in molti: qual'è lo scopo dell'Unione Europea. In buona sostanza, perché esiste e a cosa serve? Ecco la risposta di Beck:

Primo, l'Unione Europea unisce Stati per che per secoli si son fatti la guerra. Le bombe su Roma, gli orrori di Auschwitz, le sirene di Londra, la distruzione di Dresda rappresentano il passato remoto anche (e soprattutto) grazie a quel progetto di "casa comune" che De Gasperi, Shumann, Adenauer e gli altri europeisti convinti hanno iniziato e di cui noi godiamo i benefici.

Secondo, l'UE offre una voce globale a Stati che altrimenti godrebbero di una prospettiva limitata. Per continuare ad avere un significato globale e reggere il confronto con USA, Cina, Russia, India e gli altri attori globali del futuro, gli Stati europei non posso prescindere dall'Unione.

Terzo, l'Europa rafforza gli Stati. "L'Europa - dice Beck - non è un ostacolo alla sovranità nazionale; anzi, é il mezzo necessario per migliorarla". Più si sviluppa e percepisce il senso di cittadinanza europea  e meno saranno forti i richiami del nazionalismo.

Il quarto e ultimo scopo riguarda la capacità di "reinventare la modernità". L'Europa, la culla della modernità, può dettare le regole del cambiamento schiacciando reset e indicando la strada verso un percorso di sviluppo sostenibile.

Per approfondimenti

Articolo precedentemente pubblicato da International Business Times nel blog Going Global 

mercoledì 8 gennaio 2014

Risorge Nalanda, la prima università globale

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
IN INDIA esisteva una università famosa in tutta l’Asia, fondata secoli prima dell’Università di Bologna e poi andata distrutta nel Medioevo. Ora, il Governo indiano ha deciso riportarla in vita. L’ennesimo esempio della ri-convergenza in atto in Asia.
 
Vedere il mondo solo attraverso il prisma dell’Occidente è un errore commesso di frequente, soprattutto in Italia. Quando mi iscrissi all’Università di Bologna appresi che l’Alma Mater Studiorum è la più antica università del mondo occidentale e pensai che – per naturale conseguenza delle cose – fosse anche la più antica del mondo.
 
Tanto forte e diffuso è l’eurocentrismo, sia in accademia che negli altri milieu sociali, da oscurare molti dei risultati politici, economici, sociali e culturali intrapresi dalle altre civiltà. Una miopia che è causa ancora oggi di un diffuso disinteresse nei confronti dell’Asia, la macro-regione con il maggior tasso di crescita del pianeta, e quindi di una perdita di opportunità economico-commerciali irripetibili.
 
Prima dell’ascesa planetaria del Vecchio Continente era l’Asia l’epicentro dell’economia mondiale, del progresso tecnologico e del sapere. L’università di Nalanda ne è un magnifico esempio. Fondata nel 427 nell’India Nord-Orientale, vicino ai confini meridionali col Nepal, era prevalentemente un centro di studi buddhisti dove tuttavia venivano studiate molte altre discipline tra cui medicina, matematica, astronomia, politica e studi militari. A livello architettonico, si trattava di un vero capolavoro: il campus comprendeva 8 plessi, 10 templi, aule dedicate alla meditazione, laghi e giardini, una biblioteca di nove piani, dormitori e alloggi che potevano ospitare fino a 10.000 studenti e 2.000 professori provenienti da tutta l’Asia – dal Giappone alla Turchia. Probabilmente, si trattò del primo polo universitario globale. Quando nel 1193 venne distrutta da un’incursione afgana, l’Università di Oxford era stata fondata da circa un secolo mentre l’Università di Cambridge sarebbe nata pochi anni dopo.
 
Nel 2006 il Parlamento indiano formalizzò la nascita della Nuova Nalanda sulla base della visione originaria, contando sul contributo di Cina, Singapore, Giappone e Thailandia e dei membri dell’East Asian Summit. Come riportato dalla BBC, il nuovo polo, sorto a 10 chilometri dal vecchio sito e costruito secondo i vecchi principi buddhisti, sarà operativo dall’anno prossimo con le prime due facoltà: Storia e Studi ambientali.
 
Ispiratore dell’iniziativa e presidente della nuova università è l’economista premio Nobel Amartya Sen, il quale aprì gli occhi agli occidentali con i suoi studi sull’origine della democrazia (“La democrazia degli altri”) e sul significato della globalizzazione (“Globalizzazione e libertà”).
 
Secondo Sen la ri-convergenza dell’Asia verso la sua storica rilevanza globale non può prescindere dalla riscoperta e dalla valorizzazione del suo sapere, sottolineando l’importanza della conoscenza per uno sviluppo economico sostenibile. Dichiara Sen: “Le genti del passato sarebbero entusiaste di imparare tutto quello che il mondo odierno può offrire, ma anche il passato ha alcuni grandi esempi di avanzamenti intellettuali che possono ispirarci, informarci e contribuire alla nostra rigenerazione accademica e sociale. Nalanda è uno di questi esempi straordinari.”
 
Articolo precedentemente pubblicato su Istitutodipolitica.it

sabato 4 gennaio 2014

L'Asia nel 2014

Nuova Delhi, India

IL 2014 SARA' un anno difficile per l'Asia, attraversata da tensioni regionali, elezioni decisive e sostenuta crescita economica minacciata da instabilità politica.

In Asia Orientale si rinnoveranno le schermaglie tra le due Coree: da una parte Seoul alleata di ferro di Washington e dall'altra Pyongyang dai comportamenti imprevedibili e con l'alleato cinese sempre più insofferente. Pechino continuerà il percorso di consolidamento della propria sfera di influenza nell'area provocando le reazioni di Giappone, Corea del Sud e spingendo gli States ad un engagement in prima linea. L'esito delle proiezioni esterne e il relativo grado di nazionalismo dipenderà dallo sviluppo delle situazioni interne: in Cina l'opera di avanzamento delle riforme economiche, nel Sol Levante la tenuta politica del Premier Abe e del suo piano di rilancio dell'economia.

Occhi puntati in India sulle elezioni parlamentari di primavera. Il Premier dimissionario Manmohan Singh lascerà la guida dell'Esecutivo dopo un decennio caratterizzato da forte crescita economica cui non ha corrisposto un altrettanto rapido sviluppo economico. A contendersi la guida del Governo saranno con ogni probabilità Rahul Gandhi per il Partito del Congresso e Narendra Modi del partito nazionalista BJP. 

Il Sudest Asiatico sarà occupato da elezioni in Thailandia e Indonesia. A Bangkok le lezioni proposte dal Premier uscente Yingluck Shinawatra siterranno il prossimo mese e saranno il banco di prova per valutare la reale consistenza politica dei movimenti anti-governativi e dell'opposizione. Le condizioni di salute dell'amatissimo re preoccupano l'intero Paese e complicano ulteriormente lo scenario. Giacarta terrà le elezioni presidenziali in estate. In gioco vi è la reputazione internazionale del Paese a maggioranza musulmana più popoloso del mondo, economia emergente tra le più promettenti ma minacciata da scandali di corruzione e crescente disuguaglianza economica. In Myanmar continuerà l'operazione di transizione democratica avviata dai generali nel 2011 attraverso uno sviluppo economico accelerato e l'apertura ai mercati internazionali. 

Il 2014 metterà alla prova i leader delle principali economie nella ricerca del compromesso e nella capacità di bilanciare la crescita economica interna con la crescente complessità a livello politico e sociale e una maggiore interdipendenza regionale.

Approfondimenti


Articolo pubblicato da International Business Times nel blog Going Global

giovedì 2 gennaio 2014

Investimenti stranieri? Si, grazie


GLI INVESTIMENTI STRANIERI sono fondamentali per il trasferimento tecnologico, la crescita della competitività delle imprese nazionali e dunque per la crescita economica. E non inficiano la tenuta del made in Italy

Mentre in Italia è in corso un dibattito sulla “svendita” del made in Italy alle imprese straniere, nel Regno Unito i cinesi costruiranno la prossima generazione di centrali atomiche.

Il Ministro dell’Economia inglese George Osborne ha annunciato che il suo Paese consentirà ad imprese cinesi di partecipare, sotto la supervisione del gigante dell’energia francese EDF, allo sviluppo del progetto Hinkley C: la costruzione di nuove centrali nucleari nella provincia del Somerset per un investimento stimato di circa 14 miliardi di sterline.

Una mossa ritenuta strategica per spingere un numero sempre maggiore di investitori cinesi a portare i loro capitali nel Regno Unito. Non è un caso che l’uscita del Ministro sia contestuale alla firma di importanti accordi d’affari di società cinesi in UK: dall’investimento pari a 200 milioni di dollari per la costruzione di un centro ricerca e sviluppo da parte della telco Huawei; alla scelta di Londra come sede delle operations europee per Rekoo, la più grande gaming company asiatica; alla partecipazione del Construction Engineering Group alla nuova area business dell’aeroporto di Manchester.

La storica casa automobilistica inglese Range Rover, l’acciaieria francese Arcelor, il colosso tedesco del cemento Putzmeister: tutte acquisizioni compiute da aziende asiatiche accolte con favore a Londra, Parigi e Berlino dove i decisori politico-economici ritengono gli investimenti stranieri un pilastro strategico dello sviluppo economico nazionale.

In Italia, invece, una tesi ricorrente e piuttosto diffusa anche tra la classe politica vede in malo modo le recenti acquisizioni di celebri imprese italiane da parte di investitori esteri – da Loro Piana a Pernigotti a Emilio Pucci. Le motivazioni? Vi saranno licenziamenti di massa, le attività produttive verranno delocalizzate, l’orario di lavoro rivisto, l’“italianità” verrà cancellata. Sostanzialmente, solo svantaggi. Questa è una visione miope della realtà che mostra scarsa conoscenza del fenomeno e non si fonda su dati concreti.

Come ben spiegano Hufbauer e Suominen nel libro Globalization at Risk, le multinazionali straniere portano più benefici che svantaggi: “Studi dimostrano che le multinazionali portano nuovo capitale, creano occupazione, innovazione tecnologica, intraprendono ricerca e sviluppo, si integrano con le imprese locali. Il risultato è il trasferimento di skill manageriali, operative, di marketing e di esportazione ai residenti locali”. Altrettanto interessante, gli autori notano una differenza tra le imprese nazionali che esportano ma non hanno sedi produttive all’estero e le multinazionali – queste ultime “esibiscono un maggiore valore aggiunto per lavoratore, impiegano maggior capitale per lavoratore e assumono un maggior numero di personale qualificato”.

Le imprese straniere hanno il merito di portare innovazione tecnologica, definita dall’OCSE “il fattore principale sottostante all’aumento delle condizioni di vita” e “il sine qua non della crescita”. Soprattutto, creano occupazione e indotto, anche in Italia. Lo dimostra la statistica riportata da Federico Fubini su La Repubblica: 14 imprese simbolo del made in Italy acquisite da investitori esteri hanno aumentato l’occupazione di circa il 7% nell’ultimo decennio.

Prendiamo il caso Emilio Pucci. Prima che Vuitton scommettesse sulla fashion house acquisendo il 100% del pacchetto azionario, il fatturato non superava i 50 milioni di euro e la società faticava a penetrare nei mercati emergenti del lusso, soprattutto in Asia. Il colosso francese sapeva bene però che, integrando il know how storico del produttore fiorentino con la propria solidità finanziaria e liquidità economica, i propri canali distributivi, l’esperienza globale, oltre all’inserimento di un management estremamente qualificato e con background internazionale, il brand avrebbe preso il volo. E così è stato: ricavi raddoppiati in due anni e aperture di nuovi flagship store in programma nei mercati emergenti. Le ragioni della svolta sono tutte nelle parole pronunciate dal CEO, Alessandra Carra: “La famiglia è custode del patrimonio culturale, mentre Vuitton, con le sue dimensioni, favorisce lo sviluppo e tutto il sostegno possibile”.

Gli investimenti stranieri sono fondamentali per il trasferimento tecnologico, la crescita della competitività delle imprese nazionali e dunque per la crescita economica. L’Italia è ultima tra i grandi Paesi europei per attrazione di investimenti diretti esteri e per l’efficienza delle regolamentazioni d’impresa (Doing Business, Banca Mondiale). È solo un bene per la nostra economia – trainata dalle esportazioni e integrata nel mercato globale – mantenere un elevato grado di apertura al commercio e ai flussi di capitale internazionali. In questo senso, confortano le parole del ministro degli Esteri Emma Bonino e le iniziative di Farnesina e Governo volte a “rendere il Paese un ambiente più favorevole per gli investimenti italiani e stranieri”.

Articolo pubblicato su Formiche.net